Donatella mi ha inviato il suo diario e le foto che lo accompagnano, posto il tutto a puntate inserendo le foto che lo accompagnano.
Farò anche un file zip del tutto e se qualcuno volesse scaricarlo può farlo.
Grazie Dona Edo
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Ciò che ho sperimentato in questo mio terzo – o quarto – cammino è stata soprattutto la mutevolezza, la rapidità con cui la strada cambia la percezione delle persone, delle situazioni e anche di sè. L’accumularsi ed il disfarsi di opinioni e pregiudizi.
L’Aragonese è un cammino collaterale, anticamente percorso da chi proveniva dal sud della Francia lungo la via Tolosana; attraversa l’Aragona e la Navarra fino a Puente la Reina, dove confluisce nel cammino francese, provenente da Roncisvalle.
Essendo più lungo del francese – sei tappe invece di tre – oggi è considerato un cammino secondario ed è praticato prevalentemente da spagnoli o da chi ha già percorso il cammino francese.
Sono partita una mattina di metà luglio dal passo pirenaico di Somport, il valico che separa Francia e Spagna, reduce da due piovose settimane nell’Oberland bernese, in Svizzera.
E’ stato un viaggio solitario nel vero senso della parola. Ho detto a tutti – amici, famiglia, colleghi - che sarei andata in albergo in Croazia: non mi interessava discutere, volevo essere libera persino dalla fatica di difendere le mie scelte. Così mi sono inventata una vacanza regolare, riposante, convenzionale.
Del resto, devo essere sincera: la vera avventura – l’ignoto, il non provato - sarebbe stata la vacanza in Croazia.
Ma avevo una sola possibilità, un solo colpo. E, fra oriente e occidente, le sorti sono cadute ancora ad indicare l’occidente.
PROLOGO: NESSUNO LO SAPRA’
11 luglio
A casa.
Sono molto contenta di questo blocchetto, mi è capitato sottomano stamattina in Feltrinelli ed è stato amore a prima vista. Sul frontespizio c’è scritto “spend some time alone”: sembrerebbe un buon augurio.
E spero lo sia, perché è destinato a raccogliere il testimone di una genia disgraziata: i due precedenti quaderni, smarriti, una ferita che ancora mi brucia, il terzo, un insieme di poveri foglietti dilavati su cui cerco ancora disperatamente di decifrare brandelli di sentimenti, di episodi. Non vedevo l’ora di terminarlo, mi angosciavano le settimane di silenzio sottintese agli spazi fra un’annotazione e l’altra, e provavo un senso di disagio nello sfogliare le poche pagine mutilate dalla pioggia. Tre quaderni perduti uno dopo l’altro, come se qualcosa stesse tentando di cancellare a forza un anno della mia vita.
Insomma, il nuovo blocchetto ha un importante valore simbolico, cancellerà questi mesi di angoscia e colmerà i vuoti; e qualunque cosa mi riservi il cammino – pioggia o sole, sfide vittoriose o rese umilianti – saranno queste pagine a dar consistenza ai giorni a venire.
Non comprendo neppure le motivazioni che mi hanno spinto a partire: da giorni mi tormento cercando di capire se la decisione sia solo frutto della paura di cambiare, un ripiegare su qualcosa di noto e rassicurante o se sia dettata da un amore sincero e profondo per tutto ciò che il Camino mi offre.
Per ora le mie aspirazioni sono limitate: cibo, libertà e Spagna.
La Spagna, la Spagna e il Camino. L’idea di un altro anno di attesa mi tormentava più del desiderio stesso di partire. Iniziata come una velleitaria boutade fra le chiacchiere del forum, l’idea del cammino aragonese è diventata, giorno dopo giorno, un’alternativa seria su cui ragionare. E le porte della Croazia non mi si chiudevano mai alle spalle, il ragazzo della banca che mi ha sconsigliato di comprare qui la valuta, i biglietti del traghetto che si potevano acquistare direttamente ad Ancona, la prenotazione del treno continuamente rinviata… E’ accaduto come tre anni fa, quando il viaggio in Irlanda, deciso mesi prima, sbiadiva giorno dopo giorno, mentre il cammino, insinuatosi per uno spiraglio, si imponeva con forza crescente.
Infine, l’altro ieri, ero in valle Spluga, stavo con la schiena appoggiata al muro di una baita, l’ultima abitazione prima della salita al passo omonimo, e contemplavo la notte scendere sulla tremenda gola del Cardinello. Avevo chiamato Fabio per chiedergli consiglio e lui evocava per me una Croazia pacchiana ed affollata, tanto diversa dalla Grecia oblunga delle mie fantasticherie. Forse sono stati gli argomenti che ha offerto quella telefonata, abbastanza seri e oggettivi da consentirmi di indulgere senza troppi sensi di colpa al mio balordo modo di essere.
Ieri, tornata a Milano ho comprato il biglietto aereo per domani.
Non lo dirò a nessuno: per citare Brizzi, nessuno lo saprà. Così, una parte di questa vacanza croata resterà in piedi, nonostante tutto.
Ho preparato lo zaino in mezz’ora, tanto so già cosa mettere: scarpe, calze e sacco a pelo, tutto il resto è zavorra.
Anche questo è bello, l’idea di mettersi in cammino seduta stante, senza rendere conto a nessuno, senza progetti, senza preparazione, senza dover far null’altro che stampare da internet la conferma del volo Ryanair. Partire.
Sono carica di aspettativa, desideri, fantasie. Simbolo di questo misterioso cammino aragonese, il Monastero di San Juan de la Pena; o meglio, la sua foto, il triplice abside romanico immerso in una remota luce gialla, riprodotto sulla guida comprata a Santiago tre anni fa. Nell’epoca della comunicazione totale, come mi sembra deliziosamente medievale questo decidere un viaggio per la suggestione di una foto intravista su un libro.
12 luglio
Sul treno, alla volta di Orio.
L’entusiasmo per la partenza si divide in mille rivoli di gioia: ogni cosa mi rende felice, il blocchetto, il romanzone scozzese di Diane Gabaldon comprato in stazione, la telefonata a Nicola, la mia stupida iniziativa di mandare a tutti una foto di me che saluto con addosso l’abito che mi ha regalato la cristina, l’articolo su Santiago apparso oggi sul corriere, e le poesie di Garcia Lorca sfogliate alla bancarella fuori della stazione, il volumetto che si apre proprio alla pagina in cui il poeta menziona Santiago, e questa irrefrenabile voglia di andare.
Il treno si muove - buffo quanta voglia abbia di partire - e le conchiglie, e le cose che ho letto, e l’Aragona e i boschi...
?
Orio, imbarco.
Ogni cosa è così facile stavolta: al check in mi è bastato esibire la carta d’identità ed ecco fatto. Tutta questa facilità ha un che di onirico. Nell’attesa ho mangiato un dolcino di polenta e osei: per chi non lo conosce, è una calotta gialla di pasta di mandorle irruvidita dallo zucchero che racchiude un piccolo pan di Spagna intriso di liquore e crema al cioccolato. Felicità pura.
Scruto la gente destinata a condividere con me le poche ore di questo viaggio, ma non vedo pellegrini, molti gli zaini, ma tutti ingombranti o abbinati a scarpe fuori luogo.
Intanto all’eccitazione subentra una sorta di stanchezza. A Saragozza dovrei trovare da dormire, devo solo scegliere se cercare ospitalità dalle suore che mi ha indicato Gianluca del forum o ripiegare più convenzionalmente sulla pensione segnalata nella guida Lonely planet. Ed ecco che imbarcano, si forma la fila, mi alzo, e la realtà appiattisce il sogno, i progetti e le fantasie.
13 luglio
Saragozza, mattina presto.
Giornata intensa, ieri. Alla coda per l’imbarco ho incontrato i due ragazzi del forum, Andrea e Alessandro, abbiamo fraternizzato rapidamente e fatto il viaggio assieme.
Arrivati in città, abbiamo vagato a lungo alla ricerca di un posto dove dormire, ma fuori del cammino l’ospitalità è merce rara. Respinti dalle suore e dal canonico della cattedrale del Pilar, quando anche la chiesa di Santiago ci ha rifiutato, ho convinto facilmente i ragazzi a cercare la pensione suggerita dalla Lonely Planet, questa Pension Holgado, un alveare al terzo piano di un palazzo in periferia, più conveniente e meno fetida di quanto non pensassi. Il parroco della chiesa di Santiago – una brava persona – ha telefonato invano a mezzo mondo per trovarci una sistemazione, anche se avrebbe potuto semplicemente fidarsi e darci una stanza dove stendere i sacchi a pelo. Ma la sua vecchia e malfidente perpetua lo teneva d’occhio e alla fine ha vinto lei, e noi ci siamo arresi.
E’ stato divertente però fare la parte dei postulanti Uscire per un’ora – giusto un’ora - dalla logica della mercificazione, senza neppure la protezione del cammino. Sentire il consolidarsi della sfacciataggine ad ogni tentativo, lasciare la compostezza borghese, spogliarsi della sicurezza di chi è solito ottenere pagando, provare quella diversa consapevolezza di chi non ha nulla da perdere, solo da guadagnare, nel chiedere, e nell’insistere. Le certezze, le convenzioni, non sono che maschere. Non ricordo dove ho letto che fra la civiltà e la barbarie ci sono forse due giorni, quelli necessari ad esaurire le scorte di cibo nei negozi. A noi, sono bastati venti minuti per trasformarci in zingari.
Dopo la doccia, abbiamo divorato un panino e due birre in un bar nei dintorni, poi siamo stati in giro fino a notte fonda per le strade di Saragozza, a parlare e guardarci attorno.
L’ultima birra ai tavolini di un locale all’aperto, serviti da una ragazza italiana molto gentile che ci ha lasciato a chiacchierare di fumetti, spada medievale e cammino anche quando dal bar aspettavano solo noi per chiudere e andarsene. La città era un forno, l’aria viziata e pesante puzzava di chiuso persino a notte fonda, siamo rientrati verso le undici e appena rinfrescava.
La stanza era un cubicolo a tre letti affacciato sulla trafficata Avenida Conde Aranda, abbiamo dormito malamente, tormentati dal caldo, dal rumore e dall’incessante lampeggiare dell’insegna, come nel racconto di Calvino, “luna e gnac”.
Ora sono le otto e venti, i ragazzi dormono ancora, spero di riuscire a svegliarli senza che facciano troppe storie.
Ieri mi sono trovata proprio bene, non parlavo così tanto da mesi, loro sono simpatici, gentili, spiritosi, curiosi; carini di una simpatia immediata, non arrogante né aggressiva né diffidente, gestire i rapporti non è stato per niente faticoso. All’inizio mi ero sentita deprivata e un po’ affaticata, ma poi la sensazione è sparita: come ogni volta, scopro con stupore quanto sollievo la compagnia possa dare.
Adesso però non vedo l’ora di raggiungere i Pirenei, se non altro perché il caldo qui è davvero sgradevole. Loro, fra un paio d’ore partiranno per Pamplona alla volta di Saint Jean, è il primo cammino ed è giusto e rituale iniziarlo varcando il passo di Roncisvalle.
Io invece mi dirigerò verso Jaca – che bel suono aspro, arcaico, da Spagna altomedievale, da reconquista, penso al re Sancho, alla regina Urraca – e da lì raggiungerò Somport.
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L’autobus si allontana dalla stazione, ho appena salutato i ragazzi, con un po’ di rimpianto perché so che ci dimenticheremo a vicenda.
Abbiamo fatto una principesca colazione a base di churro, in un bar lungo l’avenida. Guardavo deliziata il pavimento disseminato di mozziconi e cartacce, la televisione accesa alle nove del mattino, tutto era deliziosamente familiare, così spagnolo, così da camino. I pezzetti di churro erano caldi, appena fatti e questo sarebbe già bastato a rallegrare la nostra colazione. Ma poi, arrotolata su un vassoio abbiamo notato una gigantesca spirale di churro, un anaconda di almeno cinque centimetri di diametro, lunga forse un metro, che la ragazza gentile ha affettato davanti ai miei occhi sbalorditi e sognanti.
L’abbiamo divorato, stillante olio e crocchiante di zucchero, mentre mi divertivo a spiegare ai ragazzi la Spagna e il Camino.
So bene che basteranno pochi minuti dietro le frecce per farne dei pellegrini e rendere del tutto superflui i miei aneddoti, i consigli e le raccomandazioni, ma li ho elargiti ugualmente, più per me che per loro, in realtà.
Mi fa un effetto strano questi “essere” in Spagna. Le enormi avenidas del centro danno a Saragozza un aspetto monumentale, le strade periferiche sono affollate e gremite di negozi, eppure basta sbirciare dai margini dell’abitato per percepirne l’isolamento così tipicamente iberico. Abbiamo percorso gli spazi immensi della grandiosa stazione di Delicias, uno spropositato parallelepipedo di pietra chiara, un hangar dai marmorei e altissimi camminamenti, attraversato – giù in basso - da sei minuscole coppie di binari. Dalle gigantesche vetrate affumicate si intravedevano le colline gialle e deserte che circondano la città, facendola sembrare una base lunare in mezzo al niente.
Sarà il caldo estivo, o forse il contrasto con la soave aria condizionata di questi interni, ma stamattina mi sono finalmente sentita in vacanza, rilassata, contenta, lontana da ogni cosa, non più un soldato – o un carcerato - in licenza, come mi sentivo in Svizzera.
?
L’autobus percorre una piana accidentata e ispida, terreni calcinati ricoperti di erba secca, ogni tanto varchiamo un fiumiciattolo verde brillante, bordeggiato di alberi polverosi.
Jaca è stata l’occhiata di un minuto attorno alla piccola stazione delle corriere, il tempo di assaporare un profumino che usciva tentatore dal retro di un ristorante, e poi mi sono scapicollata per agguantare la coincidenza diretta a Somport.
?
Somport
Fa decisamente fresco. Attorno, le montagne sono violacee e imponenti. Dal bus ormai vuoto sono scese con me due signore, tarchiate, capelli bianchi e corti, grandi zaini, sicuramente pellegrine.
Mi aspettavo un paese, o almeno qualche casa, invece sul passo non c’è nulla – una cappella bianca a forma di osso di seppia, una brutta statua di Santiago che sembra fatta di tapparella, la dogana, e un albergue dove non hanno la credencial.
Ho vagato qua e là, giusto per scavare un solco, battere una toppa prima di partire. Per un po’ varcato avanti e indietro la frontiera quasi incustodita fra Francia e Spagna –come giocare al mondo senza i gessetti – ma mi sono stancata, e non c’è null’altro da fare.
Mentre scattavo le foto alla fuga dei Pirenei avvolta nella foschia, dall’invisibile sentiero sottostante sono emerse le teste di una comitiva di pellegrini, sembravano spuntati dal terreno e si sono riversati come formiche dentro l’albergue. Li ho seguiti, ho preso un caffè, sfogliato il giornale, ma non ho trovato motivi per restare. Inoltre sono appena le tre, non ho voglia di spendere il pomeriggio a guardare il profilo dei monti.
Un istante prima di avviarmi mi sono affacciata sulla Francia, guardavo le conche che si susseguivano, racchiuse fra le montagne, pensavo alla libertà che quella visione ha rappresentato per molti. Chissà quanti profughi sono fuggiti da qui; penso a Irun, a Cerbère, a Port Bou.
La bellezza nasconde sempre il dolore di cui l’ha intrisa la storia. Strano per chi fuggiva le pianure assolate, le colline ingiallite dal sole, congedarsi dalla patria lungo questi pendii verdeggianti e profumati di fiori. Espana. Una, grande, libre. E penso all’assurdità della storia che in pochi anni avrebbe invertito la corrente della salvezza, trasformando la terribile Spagna, oscura, devastata e grondante di sangue, nell’ultima via di scampo da un’Europa sommersa dal nazismo
Avanti dunque. Scenderò, se riesco, fino a Canfranc Estaciòn, a sei o sette chilometri da qui. Una partenza in sordina, niente benedizioni nè solenni investiture. Ho gettato un’occhiata al cartello che dice Camino de Santiago – e chi ci crederebbe qui, tanto lontano… - poi, volte le spalle al passo, non mi è restato che imboccare il sentiero che si inabissava alla sinistra della carretera.
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Nel rincorrersi, le nuvole rinchiudono il sole, un’ombra si distende e si ritrae, un’angoscia istintiva mi stringe la gola, voglia di fuggire, di scendere a valle il più presto possibile. L’aria è tiepida ma incalzante, ho estratto il pile dallo zaino e indossato la bandana blu.
Mi fermo un istante sul sentiero per raccontare il profumo che sale dai fiori gialli e viola, i pinetti giovani ed i cespugli di rose canine, il rio Aragon, torrentello serpeggiante fra le rive basse ed erbose. Il sentiero scende, incassato in questa valletta, un solco vellutato contenuto nella più ampia conca delle montagne costellate di radi abeti; massi e ciottoli sono del medesimo viola delle rocce soprastanti, opachi come gesso, e le frecce gialle, strane in questo paesaggio montano, seminascoste dagli steli che ondeggiano fra le pietre.
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La stazione sciistica di Candanchu dista forse solo un chilometro, ma la pace di questo momento è difficile da spezzare.
Mi fermo ancora, davanti ad un iris selvatico, i petali blu notte. Il sentiero si è addentrato fra gli abeti, in sottofondo l’ovattato fruscio del fiume, diverso dal fragore dei ruscelli a Murren.
Un gregge si assiepa sul fianco della collina, scendo con calma, scatto foto ad ogni istante per fermare la bellezza di questi posti, il sole, queste rocce che sembrano appena spuntate dalla terra, e l’erba tenera, verde, da alta montagna.
Sopra ogni cosa aleggia una fragranza intensa e dolce, miscela di tutti questi fiori felici di sussultare alla brezza. Quanti cespugli di rose attorno a me: cammino in un bosco di rose, e abeti, e mirto, e prati di primule.
In lontananza scorgo una roccia bassa e lunga, piccola Ayer’s Rock brulicante di alpinisti colorati che si esercitano appesi alle pareti. Qui il cammino è solo una variante dell’intreccio di sentieri che si diparte da ogni bivio, gli escursionisti sono molto più numerosi dei pellegrini.
Canfranc Estaciòn
Poco prima dell’abitato di Candanchu, una Madesimo pirenaica, agglomerato artificioso di alberghi moderni e impianti di risalita, ho incontrato le rovine dell’hospital di Santa Cristina, oggi un angusto rettangolo di pietre rase al suolo, ma che per secoli ha offerto ai pellegrini il solo rifugio su questo versante degli spaventosi Pirenei.
Dopo Candanchu, che la strada ha sfiorato senza incrociare, la discesa si è mantenuta lieve e piacevole, consentendomi di rincorrere pigramente questo o quel pensiero, nel tentativo di riadattare la mente ai ritmi del cammino, di comprendere il dilatarsi dello spazio, alla ricerca di quell’istintiva accettazione dell’avvicendarsi di un paese dopo l’altro.
La vista delle frecce riportava confusamente a galla i ricordi delle altre volte, così diverse l’una dall’altra e così complementari: una tutta sensazioni, l’altra tutta emozioni e conflitti. Ogni cammino è formato anche dal ricordo dei precedenti, e più vividi mi apparivano oggi i ricordi del secondo cammino, gli episodi legati alle persone, alle vicende, allo stare insieme.
Ma lo stare insieme è un sostegno e un limite contemporaneamente. Anche oggi coi ragazzi, per quanto mi trovassi bene, mi sentivo affaticata, ed esasperata per lo scorrere via delle cose che non potevo afferrare compiutamente, troppo occupata a gestire il dialogo ed i rapporti. La libertà è una severa maestra, ed esigente.
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L’albergue Pepito Grillo inalbera un’insegna con l’immagine del grillo parlante, “Pepito Grillo”, appunto. E’ una vecchia costruzione a due piani col tetto a punta, che sorge all’inizio dell’abitato, fra le case mezze diroccate della parte vecchia del paese, poco lontano dalla stazione in rovina. Alberghi chiusi, bar smantellati, tutto è cadente. Il paese nato è con la stazione e muore con essa. L’albergue è accogliente, interamente rivestito di legno, scale, ballatoi, pavimenti, La ragazza che lo gestisce mi assegna una bella stanza mansardata.
Il giorno è ancora luminoso, ma sono ormai le otto e mezza, mi organizzo meccanicamente, intanto ripenso a quante cose ho fatto fino ad ora. Sto bene, eppure non mi sento in cammino, non basta seguire le frecce per un paio d’ore, o srotolare il sacco a pelo. Ci vuole tempo per entrare in quello stato d’animo impercettibile che rende meccanico il camminare, che fa interiorizzare l’esperienza, la rende parte di te.
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La stazione internazionale di Canfranc era, con quella di Lipsia, la più grande d’Europa, megalomane fiore all’occhiello della Spagna franchista, un edificio lunghissimo e snello dal tetto d’ardesia. Ora dai muri transennati occhieggiano solo finestre cieche.
Nel 1975 è caduto un viadotto dalla parte francese, la linea internazionale si è interrotta e non è stata ripristinata e la stazione, abbandonata, è andata lentamente in rovina.
Sopra le impalcature arrugginite sventola un enorme drappo coi colori d’Aragona, un cartello annuncia l’imminente restauro.
Il binario finisce nell’erba: serve soltanto il trenino ad un unico vagone che una volta al giorno si spinge fino a Canfranc Estaciòn.
Uscita dalla stazione varco il ponte, sotto, il fiume si spalma su grandi vasche quadrate che scendono in salti progressivi accanto ad una spianata erbosa affollata da uomini che giocano a petanque. La Francia, in fondo, è a un tiro di sasso.
Il paese si sgrana lungo la riva destra dell’Aragon, un crescent di vecchie case dalle facciate di legno scuro. Empori dalle vetrine polverose espongono i medesimi souvenir, qualche bar dall’aria dimessa, dovunque cartelli che avvisano di non parcheggiare sotto i tetti, il rischio è la caduta di lastre di ghiaccio. Una passeggiata pedonale corre alta sull’argine, un paio di bancarelle danno un tocco balneare, i soliti peruviani ed un furgone che vende churro: ne ho comprato tre pezzi, che il tipo ha estratto fumanti da una bacinella di acciaio.
Ho esplorato il poco che c’era da esplorare, sono entrata e uscita dai negozi, alla ricerca di cibo o forse solo di un’ispirazione, qualcosa che mi suscitasse una fantasia. Ho curiosato fra i pochi libri esposti: reduce dal bruttissimo, grossolano, ripugnante romanzo di Diana Gabaldon, avevo bisogno di aria pura. Così mi sono comprata “Capitano Alatriste” il primo volume della saga ambientata nel seicento di Perez Reverte. E’ in spagnolo, lo leggerò lentamente e mi durerà tutta la settimana.
Mi era venuto il capriccio di cenare con un litro di latte, ma il ragazzo del negozio non capiva cosa intendessi per latte “fresco”, pensava mi riferissi a latte “freddo”, l’idea di latte non a lunga conservazione gli sembrava estranea e barbara, ho lasciato perdere.
Supero i negozi, mi faccio largo fra gli uomini ammassati fuori della panetteria dal grande bancone che funge anche da bar. I boschi di abeti nodosi risalgono selvaggi e scuri il dorso della vallata, sfiorano il limitare del paese. Un pannello racconta della Jacetania e dei suoi antichi popoli, lo scorro rapidamente, mi affascina di più quello che narra la storia della stazione e dei traffici oscuri dei nazisti, del contrabbando di wolframio in tempo di guerra.
Alta sopra il paese, una chiesa moderna, le cui pareti in mattoni rossi ricordano l’architettura di certe chiese di Milano. Alcuni ragazzi hanno appena terminato le prove per un concerto di questa sera, entrando li incrocio mentre si avviano con gli strumenti avvolti nelle custodie.
Raggiungo finalmente l’officina del turismo. Un signore ciccione mi fa compilare un modulo e mi consegna la credencial, impartendomi con aria solenne una sorta di impacciata benedizione. E così sia, dunque.
?
Risalgo una scalinata e raggiungo un terrazzo dove sorge la decrepita caserma dei pompieri. Tutto mi sembra sgretolato, vecchio. Attraverso un giardinetto, scendo nuovamente sulla strada l’abitato sembra finito; invece, dopo una curva, il paese muta aspetto. Ecco ristoranti, bar, bersò, tutti i simboli che caratterizzano una fiorente stazione di villeggiatura.
Due lunghi grandi blocchi di edifici, come case popolari dei primi del secolo, si fronteggiano sulla strada in declivio, quattro piani e il tetto trapezoidale, muri rosa, tetti a lucernario e tante finestre. I colori hanno qualcosa di ligure ma le forme, le punte, i legni, gli spioventi richiamano l’eco di inverni terribili.
E alle spalle di queste costruzioni, una casa ancora più bella, anch’essa lunghissima, con ampie volte aguzze decorate con travi traforate, portoni ad arco, balconi verdi in legno contro le pareti bianche, un’architettura singolare e affascinante, un misto di Baviera e le antiche scuderie di San Siro, un che di montano, ma anche l’eco di una civiltà ignorata e capannelli di gente che conversa e ride fuori da un piccolo bar, e tanti comignoli e lucernari e l’estate in una delle sue forme, qui.
E dovunque profumo di fiori e di neve. Quante forme assume la montagna, penso all’algore perfetto dell’Oberland Bernese, alla verde dolcezza della valle di Schuol, alla solitudine inquietante della valle Spluga, all’isolamento di Isola di Madesimo. E qui, qualcosa di ancora diverso.
Scendo ancora, altre costruzioni, meno curate. Mi imbatto in un palazzo, grande e mal tenuto nonostante la splendida posizione, i mattoni a vista si sbriciolano, i balconi sono anneriti dalla muffa.
Alla fine del paese, la fine vera, ho trovato questo bar “la Duanilla”, una costruzione stretta fra una chiusa e l’imbocco del tunnel per la Francia, cuscini imbottiti, arredo vagamente esotico e il tetto coperto di rami, tanta gente che beve l’aperitivo, mi accomodo, le ragazze sono gentili, la birra è buona e mi sento molto contenta.
Scrivo e intanto i cammini si mescolano e forse ritornare maschera solo il desiderio di rivivere quei giorni di tre anni fa. Come se un nuovo camino potesse risvegliare quelle vecchie emozioni. In fondo, il cammino d’autunno di due anni fa era stato bello e gratificante, chissà che anche questo non si riveli una gioia e la fonte di bei ricordi. Per ora sto bene e sono contenta, sono le nove e venti andrò a mangiare il churro della bancarella in piazza, poi c’è il concerto in chiesa, alle dieci e mezza. Esco dal bar e mi affaccio sul fiume. Da una specie di toboga l’acqua che arriva dalla montagna si riversa nella chiusa a ondate, possenti e rumorose come vere onde marine.
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Risalgo alla volta del rifugio, il paese si sgrana lungo l’Aragon, dall’altra parte gli abeti sono alti, i tronchi nodosi.
Ripasso davanti alle belle case rosa, settimana prossima inaugurano la Station Tavern, un ristorante realizzato in un palazzo costruito ad imitazione di quelli più antichi. Guardo l’insegna e provo una fitta di rimpianto, e penso a quanto mi piacerebbe ritornare solo per vederlo aperto, e tornare quando la vecchia stazione sarà finalmente ristrutturata e la linea internazionale ripristinata, e tutto bello e nuovo e la storia riavvolta in modo che non ci sia nulla di rotto, triste o in rovina.
La bancarella del churro era chiusa, resto con la fame e la delusione, nonostante tutte le schifezze mangiucchiate, mi sento come se fossi stata mandata a letto senza cena. Ora fa freddo, l’ombra dell’inverno incombe anche in piena estate. Voglio solo tornare all’albergue e dormire, altro che concerto.
Scende la sera ed è ovunque uguale la notte in montagna, quello sbiadire del cielo e l’incupirsi delle cime, l’accentuarsi dei crepacci, lo stringersi del cuore, il bisogno di rifugiarsi nel proprio buco, nella propria tana, nel sacco a pelo.
Strano come in tanti anni di cammino non abbia mani trovato la forza di affrontare a capo scoperto il calar della notte, mentre ho perso il conto delle albe accolte nel bosco, delle levate a notte fonda, delle marce solitarie nel buio. L’ora del lupo non mi inquieta tanto quanto il crepuscolo.
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Finalmente stesa nel sacco a pelo, avevo preparato tutto per la partenza di domani e mi apprestavo a leggere in santa pace. All’improvviso l’altro pellegrino che occupa con me la stanza, ha attaccato bottone. A tutta prima sosteneva di voler dormire ma che, bontà sua, mi avrebbe lasciato leggere qualche minuto. Poi ha iniziato a chiacchierare, facendomi perdere tempo prezioso, mentre la sola cosa che volevo era restare sola in compagnia del capitano Alatriste.
Io gli ho dato un po’ corda, mi sono presentata, ci siamo mostrati le foto scattate sino ad oggi, però ho messo in chiaro che domani mi alzerò molto presto, visto che ho concordato con l’ospitalera la colazione per le sette. L’albergue è pieno e bisogna fare i turni, ma a me va benissimo. Alla fine il tempo è così poco, sprecarlo a parlare e guardare fotografie inutili mi esaspera.
Farò anche un file zip del tutto e se qualcuno volesse scaricarlo può farlo.
Grazie Dona Edo
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Ciò che ho sperimentato in questo mio terzo – o quarto – cammino è stata soprattutto la mutevolezza, la rapidità con cui la strada cambia la percezione delle persone, delle situazioni e anche di sè. L’accumularsi ed il disfarsi di opinioni e pregiudizi.
L’Aragonese è un cammino collaterale, anticamente percorso da chi proveniva dal sud della Francia lungo la via Tolosana; attraversa l’Aragona e la Navarra fino a Puente la Reina, dove confluisce nel cammino francese, provenente da Roncisvalle.
Essendo più lungo del francese – sei tappe invece di tre – oggi è considerato un cammino secondario ed è praticato prevalentemente da spagnoli o da chi ha già percorso il cammino francese.
Sono partita una mattina di metà luglio dal passo pirenaico di Somport, il valico che separa Francia e Spagna, reduce da due piovose settimane nell’Oberland bernese, in Svizzera.
E’ stato un viaggio solitario nel vero senso della parola. Ho detto a tutti – amici, famiglia, colleghi - che sarei andata in albergo in Croazia: non mi interessava discutere, volevo essere libera persino dalla fatica di difendere le mie scelte. Così mi sono inventata una vacanza regolare, riposante, convenzionale.
Del resto, devo essere sincera: la vera avventura – l’ignoto, il non provato - sarebbe stata la vacanza in Croazia.
Ma avevo una sola possibilità, un solo colpo. E, fra oriente e occidente, le sorti sono cadute ancora ad indicare l’occidente.
PROLOGO: NESSUNO LO SAPRA’
11 luglio
A casa.
Sono molto contenta di questo blocchetto, mi è capitato sottomano stamattina in Feltrinelli ed è stato amore a prima vista. Sul frontespizio c’è scritto “spend some time alone”: sembrerebbe un buon augurio.
E spero lo sia, perché è destinato a raccogliere il testimone di una genia disgraziata: i due precedenti quaderni, smarriti, una ferita che ancora mi brucia, il terzo, un insieme di poveri foglietti dilavati su cui cerco ancora disperatamente di decifrare brandelli di sentimenti, di episodi. Non vedevo l’ora di terminarlo, mi angosciavano le settimane di silenzio sottintese agli spazi fra un’annotazione e l’altra, e provavo un senso di disagio nello sfogliare le poche pagine mutilate dalla pioggia. Tre quaderni perduti uno dopo l’altro, come se qualcosa stesse tentando di cancellare a forza un anno della mia vita.
Insomma, il nuovo blocchetto ha un importante valore simbolico, cancellerà questi mesi di angoscia e colmerà i vuoti; e qualunque cosa mi riservi il cammino – pioggia o sole, sfide vittoriose o rese umilianti – saranno queste pagine a dar consistenza ai giorni a venire.
Non comprendo neppure le motivazioni che mi hanno spinto a partire: da giorni mi tormento cercando di capire se la decisione sia solo frutto della paura di cambiare, un ripiegare su qualcosa di noto e rassicurante o se sia dettata da un amore sincero e profondo per tutto ciò che il Camino mi offre.
Per ora le mie aspirazioni sono limitate: cibo, libertà e Spagna.
La Spagna, la Spagna e il Camino. L’idea di un altro anno di attesa mi tormentava più del desiderio stesso di partire. Iniziata come una velleitaria boutade fra le chiacchiere del forum, l’idea del cammino aragonese è diventata, giorno dopo giorno, un’alternativa seria su cui ragionare. E le porte della Croazia non mi si chiudevano mai alle spalle, il ragazzo della banca che mi ha sconsigliato di comprare qui la valuta, i biglietti del traghetto che si potevano acquistare direttamente ad Ancona, la prenotazione del treno continuamente rinviata… E’ accaduto come tre anni fa, quando il viaggio in Irlanda, deciso mesi prima, sbiadiva giorno dopo giorno, mentre il cammino, insinuatosi per uno spiraglio, si imponeva con forza crescente.
Infine, l’altro ieri, ero in valle Spluga, stavo con la schiena appoggiata al muro di una baita, l’ultima abitazione prima della salita al passo omonimo, e contemplavo la notte scendere sulla tremenda gola del Cardinello. Avevo chiamato Fabio per chiedergli consiglio e lui evocava per me una Croazia pacchiana ed affollata, tanto diversa dalla Grecia oblunga delle mie fantasticherie. Forse sono stati gli argomenti che ha offerto quella telefonata, abbastanza seri e oggettivi da consentirmi di indulgere senza troppi sensi di colpa al mio balordo modo di essere.
Ieri, tornata a Milano ho comprato il biglietto aereo per domani.
Non lo dirò a nessuno: per citare Brizzi, nessuno lo saprà. Così, una parte di questa vacanza croata resterà in piedi, nonostante tutto.
Ho preparato lo zaino in mezz’ora, tanto so già cosa mettere: scarpe, calze e sacco a pelo, tutto il resto è zavorra.
Anche questo è bello, l’idea di mettersi in cammino seduta stante, senza rendere conto a nessuno, senza progetti, senza preparazione, senza dover far null’altro che stampare da internet la conferma del volo Ryanair. Partire.
Sono carica di aspettativa, desideri, fantasie. Simbolo di questo misterioso cammino aragonese, il Monastero di San Juan de la Pena; o meglio, la sua foto, il triplice abside romanico immerso in una remota luce gialla, riprodotto sulla guida comprata a Santiago tre anni fa. Nell’epoca della comunicazione totale, come mi sembra deliziosamente medievale questo decidere un viaggio per la suggestione di una foto intravista su un libro.
12 luglio
Sul treno, alla volta di Orio.
L’entusiasmo per la partenza si divide in mille rivoli di gioia: ogni cosa mi rende felice, il blocchetto, il romanzone scozzese di Diane Gabaldon comprato in stazione, la telefonata a Nicola, la mia stupida iniziativa di mandare a tutti una foto di me che saluto con addosso l’abito che mi ha regalato la cristina, l’articolo su Santiago apparso oggi sul corriere, e le poesie di Garcia Lorca sfogliate alla bancarella fuori della stazione, il volumetto che si apre proprio alla pagina in cui il poeta menziona Santiago, e questa irrefrenabile voglia di andare.
Il treno si muove - buffo quanta voglia abbia di partire - e le conchiglie, e le cose che ho letto, e l’Aragona e i boschi...
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Orio, imbarco.
Ogni cosa è così facile stavolta: al check in mi è bastato esibire la carta d’identità ed ecco fatto. Tutta questa facilità ha un che di onirico. Nell’attesa ho mangiato un dolcino di polenta e osei: per chi non lo conosce, è una calotta gialla di pasta di mandorle irruvidita dallo zucchero che racchiude un piccolo pan di Spagna intriso di liquore e crema al cioccolato. Felicità pura.
Scruto la gente destinata a condividere con me le poche ore di questo viaggio, ma non vedo pellegrini, molti gli zaini, ma tutti ingombranti o abbinati a scarpe fuori luogo.
Intanto all’eccitazione subentra una sorta di stanchezza. A Saragozza dovrei trovare da dormire, devo solo scegliere se cercare ospitalità dalle suore che mi ha indicato Gianluca del forum o ripiegare più convenzionalmente sulla pensione segnalata nella guida Lonely planet. Ed ecco che imbarcano, si forma la fila, mi alzo, e la realtà appiattisce il sogno, i progetti e le fantasie.
13 luglio
Saragozza, mattina presto.
Giornata intensa, ieri. Alla coda per l’imbarco ho incontrato i due ragazzi del forum, Andrea e Alessandro, abbiamo fraternizzato rapidamente e fatto il viaggio assieme.
Arrivati in città, abbiamo vagato a lungo alla ricerca di un posto dove dormire, ma fuori del cammino l’ospitalità è merce rara. Respinti dalle suore e dal canonico della cattedrale del Pilar, quando anche la chiesa di Santiago ci ha rifiutato, ho convinto facilmente i ragazzi a cercare la pensione suggerita dalla Lonely Planet, questa Pension Holgado, un alveare al terzo piano di un palazzo in periferia, più conveniente e meno fetida di quanto non pensassi. Il parroco della chiesa di Santiago – una brava persona – ha telefonato invano a mezzo mondo per trovarci una sistemazione, anche se avrebbe potuto semplicemente fidarsi e darci una stanza dove stendere i sacchi a pelo. Ma la sua vecchia e malfidente perpetua lo teneva d’occhio e alla fine ha vinto lei, e noi ci siamo arresi.
E’ stato divertente però fare la parte dei postulanti Uscire per un’ora – giusto un’ora - dalla logica della mercificazione, senza neppure la protezione del cammino. Sentire il consolidarsi della sfacciataggine ad ogni tentativo, lasciare la compostezza borghese, spogliarsi della sicurezza di chi è solito ottenere pagando, provare quella diversa consapevolezza di chi non ha nulla da perdere, solo da guadagnare, nel chiedere, e nell’insistere. Le certezze, le convenzioni, non sono che maschere. Non ricordo dove ho letto che fra la civiltà e la barbarie ci sono forse due giorni, quelli necessari ad esaurire le scorte di cibo nei negozi. A noi, sono bastati venti minuti per trasformarci in zingari.
Dopo la doccia, abbiamo divorato un panino e due birre in un bar nei dintorni, poi siamo stati in giro fino a notte fonda per le strade di Saragozza, a parlare e guardarci attorno.
L’ultima birra ai tavolini di un locale all’aperto, serviti da una ragazza italiana molto gentile che ci ha lasciato a chiacchierare di fumetti, spada medievale e cammino anche quando dal bar aspettavano solo noi per chiudere e andarsene. La città era un forno, l’aria viziata e pesante puzzava di chiuso persino a notte fonda, siamo rientrati verso le undici e appena rinfrescava.
La stanza era un cubicolo a tre letti affacciato sulla trafficata Avenida Conde Aranda, abbiamo dormito malamente, tormentati dal caldo, dal rumore e dall’incessante lampeggiare dell’insegna, come nel racconto di Calvino, “luna e gnac”.
Ora sono le otto e venti, i ragazzi dormono ancora, spero di riuscire a svegliarli senza che facciano troppe storie.
Ieri mi sono trovata proprio bene, non parlavo così tanto da mesi, loro sono simpatici, gentili, spiritosi, curiosi; carini di una simpatia immediata, non arrogante né aggressiva né diffidente, gestire i rapporti non è stato per niente faticoso. All’inizio mi ero sentita deprivata e un po’ affaticata, ma poi la sensazione è sparita: come ogni volta, scopro con stupore quanto sollievo la compagnia possa dare.
Adesso però non vedo l’ora di raggiungere i Pirenei, se non altro perché il caldo qui è davvero sgradevole. Loro, fra un paio d’ore partiranno per Pamplona alla volta di Saint Jean, è il primo cammino ed è giusto e rituale iniziarlo varcando il passo di Roncisvalle.
Io invece mi dirigerò verso Jaca – che bel suono aspro, arcaico, da Spagna altomedievale, da reconquista, penso al re Sancho, alla regina Urraca – e da lì raggiungerò Somport.
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L’autobus si allontana dalla stazione, ho appena salutato i ragazzi, con un po’ di rimpianto perché so che ci dimenticheremo a vicenda.
Abbiamo fatto una principesca colazione a base di churro, in un bar lungo l’avenida. Guardavo deliziata il pavimento disseminato di mozziconi e cartacce, la televisione accesa alle nove del mattino, tutto era deliziosamente familiare, così spagnolo, così da camino. I pezzetti di churro erano caldi, appena fatti e questo sarebbe già bastato a rallegrare la nostra colazione. Ma poi, arrotolata su un vassoio abbiamo notato una gigantesca spirale di churro, un anaconda di almeno cinque centimetri di diametro, lunga forse un metro, che la ragazza gentile ha affettato davanti ai miei occhi sbalorditi e sognanti.
L’abbiamo divorato, stillante olio e crocchiante di zucchero, mentre mi divertivo a spiegare ai ragazzi la Spagna e il Camino.
So bene che basteranno pochi minuti dietro le frecce per farne dei pellegrini e rendere del tutto superflui i miei aneddoti, i consigli e le raccomandazioni, ma li ho elargiti ugualmente, più per me che per loro, in realtà.
Mi fa un effetto strano questi “essere” in Spagna. Le enormi avenidas del centro danno a Saragozza un aspetto monumentale, le strade periferiche sono affollate e gremite di negozi, eppure basta sbirciare dai margini dell’abitato per percepirne l’isolamento così tipicamente iberico. Abbiamo percorso gli spazi immensi della grandiosa stazione di Delicias, uno spropositato parallelepipedo di pietra chiara, un hangar dai marmorei e altissimi camminamenti, attraversato – giù in basso - da sei minuscole coppie di binari. Dalle gigantesche vetrate affumicate si intravedevano le colline gialle e deserte che circondano la città, facendola sembrare una base lunare in mezzo al niente.
Sarà il caldo estivo, o forse il contrasto con la soave aria condizionata di questi interni, ma stamattina mi sono finalmente sentita in vacanza, rilassata, contenta, lontana da ogni cosa, non più un soldato – o un carcerato - in licenza, come mi sentivo in Svizzera.
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L’autobus percorre una piana accidentata e ispida, terreni calcinati ricoperti di erba secca, ogni tanto varchiamo un fiumiciattolo verde brillante, bordeggiato di alberi polverosi.
Jaca è stata l’occhiata di un minuto attorno alla piccola stazione delle corriere, il tempo di assaporare un profumino che usciva tentatore dal retro di un ristorante, e poi mi sono scapicollata per agguantare la coincidenza diretta a Somport.
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Somport
Fa decisamente fresco. Attorno, le montagne sono violacee e imponenti. Dal bus ormai vuoto sono scese con me due signore, tarchiate, capelli bianchi e corti, grandi zaini, sicuramente pellegrine.
Mi aspettavo un paese, o almeno qualche casa, invece sul passo non c’è nulla – una cappella bianca a forma di osso di seppia, una brutta statua di Santiago che sembra fatta di tapparella, la dogana, e un albergue dove non hanno la credencial.
Ho vagato qua e là, giusto per scavare un solco, battere una toppa prima di partire. Per un po’ varcato avanti e indietro la frontiera quasi incustodita fra Francia e Spagna –come giocare al mondo senza i gessetti – ma mi sono stancata, e non c’è null’altro da fare.
Mentre scattavo le foto alla fuga dei Pirenei avvolta nella foschia, dall’invisibile sentiero sottostante sono emerse le teste di una comitiva di pellegrini, sembravano spuntati dal terreno e si sono riversati come formiche dentro l’albergue. Li ho seguiti, ho preso un caffè, sfogliato il giornale, ma non ho trovato motivi per restare. Inoltre sono appena le tre, non ho voglia di spendere il pomeriggio a guardare il profilo dei monti.

Un istante prima di avviarmi mi sono affacciata sulla Francia, guardavo le conche che si susseguivano, racchiuse fra le montagne, pensavo alla libertà che quella visione ha rappresentato per molti. Chissà quanti profughi sono fuggiti da qui; penso a Irun, a Cerbère, a Port Bou.
La bellezza nasconde sempre il dolore di cui l’ha intrisa la storia. Strano per chi fuggiva le pianure assolate, le colline ingiallite dal sole, congedarsi dalla patria lungo questi pendii verdeggianti e profumati di fiori. Espana. Una, grande, libre. E penso all’assurdità della storia che in pochi anni avrebbe invertito la corrente della salvezza, trasformando la terribile Spagna, oscura, devastata e grondante di sangue, nell’ultima via di scampo da un’Europa sommersa dal nazismo
Avanti dunque. Scenderò, se riesco, fino a Canfranc Estaciòn, a sei o sette chilometri da qui. Una partenza in sordina, niente benedizioni nè solenni investiture. Ho gettato un’occhiata al cartello che dice Camino de Santiago – e chi ci crederebbe qui, tanto lontano… - poi, volte le spalle al passo, non mi è restato che imboccare il sentiero che si inabissava alla sinistra della carretera.
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Nel rincorrersi, le nuvole rinchiudono il sole, un’ombra si distende e si ritrae, un’angoscia istintiva mi stringe la gola, voglia di fuggire, di scendere a valle il più presto possibile. L’aria è tiepida ma incalzante, ho estratto il pile dallo zaino e indossato la bandana blu.
Mi fermo un istante sul sentiero per raccontare il profumo che sale dai fiori gialli e viola, i pinetti giovani ed i cespugli di rose canine, il rio Aragon, torrentello serpeggiante fra le rive basse ed erbose. Il sentiero scende, incassato in questa valletta, un solco vellutato contenuto nella più ampia conca delle montagne costellate di radi abeti; massi e ciottoli sono del medesimo viola delle rocce soprastanti, opachi come gesso, e le frecce gialle, strane in questo paesaggio montano, seminascoste dagli steli che ondeggiano fra le pietre.

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La stazione sciistica di Candanchu dista forse solo un chilometro, ma la pace di questo momento è difficile da spezzare.
Mi fermo ancora, davanti ad un iris selvatico, i petali blu notte. Il sentiero si è addentrato fra gli abeti, in sottofondo l’ovattato fruscio del fiume, diverso dal fragore dei ruscelli a Murren.
Un gregge si assiepa sul fianco della collina, scendo con calma, scatto foto ad ogni istante per fermare la bellezza di questi posti, il sole, queste rocce che sembrano appena spuntate dalla terra, e l’erba tenera, verde, da alta montagna.

Sopra ogni cosa aleggia una fragranza intensa e dolce, miscela di tutti questi fiori felici di sussultare alla brezza. Quanti cespugli di rose attorno a me: cammino in un bosco di rose, e abeti, e mirto, e prati di primule.
In lontananza scorgo una roccia bassa e lunga, piccola Ayer’s Rock brulicante di alpinisti colorati che si esercitano appesi alle pareti. Qui il cammino è solo una variante dell’intreccio di sentieri che si diparte da ogni bivio, gli escursionisti sono molto più numerosi dei pellegrini.
Canfranc Estaciòn
Poco prima dell’abitato di Candanchu, una Madesimo pirenaica, agglomerato artificioso di alberghi moderni e impianti di risalita, ho incontrato le rovine dell’hospital di Santa Cristina, oggi un angusto rettangolo di pietre rase al suolo, ma che per secoli ha offerto ai pellegrini il solo rifugio su questo versante degli spaventosi Pirenei.
Dopo Candanchu, che la strada ha sfiorato senza incrociare, la discesa si è mantenuta lieve e piacevole, consentendomi di rincorrere pigramente questo o quel pensiero, nel tentativo di riadattare la mente ai ritmi del cammino, di comprendere il dilatarsi dello spazio, alla ricerca di quell’istintiva accettazione dell’avvicendarsi di un paese dopo l’altro.
La vista delle frecce riportava confusamente a galla i ricordi delle altre volte, così diverse l’una dall’altra e così complementari: una tutta sensazioni, l’altra tutta emozioni e conflitti. Ogni cammino è formato anche dal ricordo dei precedenti, e più vividi mi apparivano oggi i ricordi del secondo cammino, gli episodi legati alle persone, alle vicende, allo stare insieme.
Ma lo stare insieme è un sostegno e un limite contemporaneamente. Anche oggi coi ragazzi, per quanto mi trovassi bene, mi sentivo affaticata, ed esasperata per lo scorrere via delle cose che non potevo afferrare compiutamente, troppo occupata a gestire il dialogo ed i rapporti. La libertà è una severa maestra, ed esigente.
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L’albergue Pepito Grillo inalbera un’insegna con l’immagine del grillo parlante, “Pepito Grillo”, appunto. E’ una vecchia costruzione a due piani col tetto a punta, che sorge all’inizio dell’abitato, fra le case mezze diroccate della parte vecchia del paese, poco lontano dalla stazione in rovina. Alberghi chiusi, bar smantellati, tutto è cadente. Il paese nato è con la stazione e muore con essa. L’albergue è accogliente, interamente rivestito di legno, scale, ballatoi, pavimenti, La ragazza che lo gestisce mi assegna una bella stanza mansardata.
Il giorno è ancora luminoso, ma sono ormai le otto e mezza, mi organizzo meccanicamente, intanto ripenso a quante cose ho fatto fino ad ora. Sto bene, eppure non mi sento in cammino, non basta seguire le frecce per un paio d’ore, o srotolare il sacco a pelo. Ci vuole tempo per entrare in quello stato d’animo impercettibile che rende meccanico il camminare, che fa interiorizzare l’esperienza, la rende parte di te.
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La stazione internazionale di Canfranc era, con quella di Lipsia, la più grande d’Europa, megalomane fiore all’occhiello della Spagna franchista, un edificio lunghissimo e snello dal tetto d’ardesia. Ora dai muri transennati occhieggiano solo finestre cieche.

Nel 1975 è caduto un viadotto dalla parte francese, la linea internazionale si è interrotta e non è stata ripristinata e la stazione, abbandonata, è andata lentamente in rovina.
Sopra le impalcature arrugginite sventola un enorme drappo coi colori d’Aragona, un cartello annuncia l’imminente restauro.
Il binario finisce nell’erba: serve soltanto il trenino ad un unico vagone che una volta al giorno si spinge fino a Canfranc Estaciòn.

Uscita dalla stazione varco il ponte, sotto, il fiume si spalma su grandi vasche quadrate che scendono in salti progressivi accanto ad una spianata erbosa affollata da uomini che giocano a petanque. La Francia, in fondo, è a un tiro di sasso.
Il paese si sgrana lungo la riva destra dell’Aragon, un crescent di vecchie case dalle facciate di legno scuro. Empori dalle vetrine polverose espongono i medesimi souvenir, qualche bar dall’aria dimessa, dovunque cartelli che avvisano di non parcheggiare sotto i tetti, il rischio è la caduta di lastre di ghiaccio. Una passeggiata pedonale corre alta sull’argine, un paio di bancarelle danno un tocco balneare, i soliti peruviani ed un furgone che vende churro: ne ho comprato tre pezzi, che il tipo ha estratto fumanti da una bacinella di acciaio.
Ho esplorato il poco che c’era da esplorare, sono entrata e uscita dai negozi, alla ricerca di cibo o forse solo di un’ispirazione, qualcosa che mi suscitasse una fantasia. Ho curiosato fra i pochi libri esposti: reduce dal bruttissimo, grossolano, ripugnante romanzo di Diana Gabaldon, avevo bisogno di aria pura. Così mi sono comprata “Capitano Alatriste” il primo volume della saga ambientata nel seicento di Perez Reverte. E’ in spagnolo, lo leggerò lentamente e mi durerà tutta la settimana.
Mi era venuto il capriccio di cenare con un litro di latte, ma il ragazzo del negozio non capiva cosa intendessi per latte “fresco”, pensava mi riferissi a latte “freddo”, l’idea di latte non a lunga conservazione gli sembrava estranea e barbara, ho lasciato perdere.
Supero i negozi, mi faccio largo fra gli uomini ammassati fuori della panetteria dal grande bancone che funge anche da bar. I boschi di abeti nodosi risalgono selvaggi e scuri il dorso della vallata, sfiorano il limitare del paese. Un pannello racconta della Jacetania e dei suoi antichi popoli, lo scorro rapidamente, mi affascina di più quello che narra la storia della stazione e dei traffici oscuri dei nazisti, del contrabbando di wolframio in tempo di guerra.
Alta sopra il paese, una chiesa moderna, le cui pareti in mattoni rossi ricordano l’architettura di certe chiese di Milano. Alcuni ragazzi hanno appena terminato le prove per un concerto di questa sera, entrando li incrocio mentre si avviano con gli strumenti avvolti nelle custodie.
Raggiungo finalmente l’officina del turismo. Un signore ciccione mi fa compilare un modulo e mi consegna la credencial, impartendomi con aria solenne una sorta di impacciata benedizione. E così sia, dunque.
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Risalgo una scalinata e raggiungo un terrazzo dove sorge la decrepita caserma dei pompieri. Tutto mi sembra sgretolato, vecchio. Attraverso un giardinetto, scendo nuovamente sulla strada l’abitato sembra finito; invece, dopo una curva, il paese muta aspetto. Ecco ristoranti, bar, bersò, tutti i simboli che caratterizzano una fiorente stazione di villeggiatura.
Due lunghi grandi blocchi di edifici, come case popolari dei primi del secolo, si fronteggiano sulla strada in declivio, quattro piani e il tetto trapezoidale, muri rosa, tetti a lucernario e tante finestre. I colori hanno qualcosa di ligure ma le forme, le punte, i legni, gli spioventi richiamano l’eco di inverni terribili.
E alle spalle di queste costruzioni, una casa ancora più bella, anch’essa lunghissima, con ampie volte aguzze decorate con travi traforate, portoni ad arco, balconi verdi in legno contro le pareti bianche, un’architettura singolare e affascinante, un misto di Baviera e le antiche scuderie di San Siro, un che di montano, ma anche l’eco di una civiltà ignorata e capannelli di gente che conversa e ride fuori da un piccolo bar, e tanti comignoli e lucernari e l’estate in una delle sue forme, qui.

E dovunque profumo di fiori e di neve. Quante forme assume la montagna, penso all’algore perfetto dell’Oberland Bernese, alla verde dolcezza della valle di Schuol, alla solitudine inquietante della valle Spluga, all’isolamento di Isola di Madesimo. E qui, qualcosa di ancora diverso.
Scendo ancora, altre costruzioni, meno curate. Mi imbatto in un palazzo, grande e mal tenuto nonostante la splendida posizione, i mattoni a vista si sbriciolano, i balconi sono anneriti dalla muffa.
Alla fine del paese, la fine vera, ho trovato questo bar “la Duanilla”, una costruzione stretta fra una chiusa e l’imbocco del tunnel per la Francia, cuscini imbottiti, arredo vagamente esotico e il tetto coperto di rami, tanta gente che beve l’aperitivo, mi accomodo, le ragazze sono gentili, la birra è buona e mi sento molto contenta.
Scrivo e intanto i cammini si mescolano e forse ritornare maschera solo il desiderio di rivivere quei giorni di tre anni fa. Come se un nuovo camino potesse risvegliare quelle vecchie emozioni. In fondo, il cammino d’autunno di due anni fa era stato bello e gratificante, chissà che anche questo non si riveli una gioia e la fonte di bei ricordi. Per ora sto bene e sono contenta, sono le nove e venti andrò a mangiare il churro della bancarella in piazza, poi c’è il concerto in chiesa, alle dieci e mezza. Esco dal bar e mi affaccio sul fiume. Da una specie di toboga l’acqua che arriva dalla montagna si riversa nella chiusa a ondate, possenti e rumorose come vere onde marine.

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Risalgo alla volta del rifugio, il paese si sgrana lungo l’Aragon, dall’altra parte gli abeti sono alti, i tronchi nodosi.
Ripasso davanti alle belle case rosa, settimana prossima inaugurano la Station Tavern, un ristorante realizzato in un palazzo costruito ad imitazione di quelli più antichi. Guardo l’insegna e provo una fitta di rimpianto, e penso a quanto mi piacerebbe ritornare solo per vederlo aperto, e tornare quando la vecchia stazione sarà finalmente ristrutturata e la linea internazionale ripristinata, e tutto bello e nuovo e la storia riavvolta in modo che non ci sia nulla di rotto, triste o in rovina.
La bancarella del churro era chiusa, resto con la fame e la delusione, nonostante tutte le schifezze mangiucchiate, mi sento come se fossi stata mandata a letto senza cena. Ora fa freddo, l’ombra dell’inverno incombe anche in piena estate. Voglio solo tornare all’albergue e dormire, altro che concerto.
Scende la sera ed è ovunque uguale la notte in montagna, quello sbiadire del cielo e l’incupirsi delle cime, l’accentuarsi dei crepacci, lo stringersi del cuore, il bisogno di rifugiarsi nel proprio buco, nella propria tana, nel sacco a pelo.
Strano come in tanti anni di cammino non abbia mani trovato la forza di affrontare a capo scoperto il calar della notte, mentre ho perso il conto delle albe accolte nel bosco, delle levate a notte fonda, delle marce solitarie nel buio. L’ora del lupo non mi inquieta tanto quanto il crepuscolo.
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Finalmente stesa nel sacco a pelo, avevo preparato tutto per la partenza di domani e mi apprestavo a leggere in santa pace. All’improvviso l’altro pellegrino che occupa con me la stanza, ha attaccato bottone. A tutta prima sosteneva di voler dormire ma che, bontà sua, mi avrebbe lasciato leggere qualche minuto. Poi ha iniziato a chiacchierare, facendomi perdere tempo prezioso, mentre la sola cosa che volevo era restare sola in compagnia del capitano Alatriste.
Io gli ho dato un po’ corda, mi sono presentata, ci siamo mostrati le foto scattate sino ad oggi, però ho messo in chiaro che domani mi alzerò molto presto, visto che ho concordato con l’ospitalera la colazione per le sette. L’albergue è pieno e bisogna fare i turni, ma a me va benissimo. Alla fine il tempo è così poco, sprecarlo a parlare e guardare fotografie inutili mi esaspera.