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Cuentos - Racconti

Sardina

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Salve pellegrini, questa nuova stanza del forum è nata perchè ciascuno di noi che ha fatto il cammino di Santiago o parte di esso, possa inserire i suoi ricordi, parti del proprio diario, i racconti e le impressioni sulla sua esperienza, fotografie.
Il titolo della stanza, Cuentos de Camino, potrebbe tranquillamente sottintendere "condivisione", perchè di questo si tratta alla fin fine: condividere momenti particolari che tutti abbiamo vissuto per un certo periodo della vita ma che sono unici per ciascuno di noi.
Condivisione, in puro spirito del cammino, anche con i futuri caminantes, pellegrini nel cuore che diverranno pellegrini effettivi e che, a loro volta, potranno al rientro inserire i loro ricordi.
Un abbraccio. E, come dico sempre: pellegrini una volta, pellegrini per sempre
 
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Una tappa del mio primo Cammino di Santiago

Riporto qui il diario di una tappa che per me ha significato molto nel mio primo Cammino di Santiago. Perdonate il mio modo di scrivere, molto semplice, ma sono io anche in queste cose. E' stata una tappa importante sopratutto per il mio incontro con il prete che dava la benedizione: è stato come fermare il tempo, non avere più cognizione dei luoghi e di me stessa.
Scusate anche la presunzione di iniziare proprio io con i ricordi, ma qualcuno doveva pur farlo!

"""Estella-Los Arcos
Solita sveglia all’alba, anzi ancora piena notte! Che strano, per me così dormigliona, saltare su ben sveglia anche prima delle 6 del mattino, quando è ancora buio. Heval è piuttosto giù e mi dice di andare senza aspettarla, deve camminare piano per via delle ampollas. Per quel poco che la conosco, so che sarà lei a superare me. Parte lenta ma poi va con passo regolare come un treno e quando ha preso il ritmo non si ferma più. Okay, vado. Mi avvio verso l’uscita del paese, nel silenzio del primo mattino. Non vedo neanche un bar aperto, quindi niente colazione. Niente colazione? Un momento: io ho pagato ieri sera per la colazione di oggi! Cerco disperatamente nella borsa la ricevuta del pagamento, torno al rifugio e mi fiondo in cucina tipo panzer: colazione! Ottima e abbondante! Nel frattempo Heval è pronta e partiamo. Pochi Km., forse solo 2, e ci troviamo al Monastero di Irache. Peccato che sia chiuso, apre nel pomeriggio e non possiamo nemmeno mettere il sello. Sulla destra del Monastero c’è la famosa Fuente del Vino, due rubinetti da cui zampilla vino rosso. In mancanza di bicchiere mettiamo lo stesso quantitativo (forse un po’ di più!) nella bottiglietta dell’acqua: è buono e fresco. Arrivano Clare e il tedesco con la faccia da furetto, foto ricordo e si riparte. Riprendo il mio ritmo, calmo, mentre Heval, alla faccia del “oggi cammino piano”, va avanti e mi distanzia. Sotto un sole che mi sta abbronzando il braccio sinistro arrivo a Villamayor del Mojardin. Poco prima del paese si trova una bellissima fonte-cisterna, la Fuente de Los Moros, una sorta di cappelletta con due archi e il tetto a punta, con all’interno i gradini che scendono sino all’acqua. Finalmente un po’ di fresco, viene voglia di mettere i piedi a mollo. Resisto alla tentazione, mi faccio fare una fotografia da un gruppetto di pellegrini spagnoli che nel frattempo sono arrivati, li saluto e vado verso il paese. Mi riposo all’ombra in una piazza, chiacchiero con una vecchietta che mi dice di avere pazienza, deve finire di pulire un locale (sembra un ufficio o ambulatorio) e poi, se voglio, mi mette il sello della Fuente, ce l’ha in dotazione lei. Certo che voglio il sello, mi piace il fatto che me lo abbia proposto lei, specificando che a me lo mette volentieri mentre agli altri spagnoli no perché loro viaggiano con l’auto d’appoggio e lei lo sa perché si vede dallo zaino, troppo piccolino e leggero, anzi vuoto. Mi dice che i veri pellegrini siamo noi con lo zaino pesante, il sudore che cola, la fatica nelle gambe ma gli occhi (los ocjos) splendenti. Mentre parla così mi rendo conto che dentro di me sto facendo un gran peccato d’orgoglio. Mentre la aspetto passa Heval con un ragazzo che già avevo visto a Puente la Reina, lo avevomo soprannominato “Figlio dei fiori” perché sembra preso pari pari dal concerto di Woodstock, capelli lunghi, collanine, pantaloni a righe, camicia in garza indiana e un’aria vagamente fumata.
Messo il sello riprendo il cammino, ma ho un fastidio indefinito, voglia troppo frequente di fare pipì, sete e malessere generale anche se leggero. Mi fermo spesso, è iniziato un lungo tratto di quasi deserto. Passo attraverso vigneti e campi di cereali, non si vede fine. Più di una volta incontro un gruppetto formato da 4 spagnole che viaggiano anche loro con l’auto d’appoggio, senza neanche zaino. Si fermano spessissimo quindi le sorpasso, poi mi fermo io e loro passano avanti. Non sono neanche antipatiche ma ……… non le considero pellegrine!
Non ci sono quasi mai alberi, solo campi coltivati, tanti campi verdi, viti, grano, avena. Il fastidio peggiora e mi sta venendo lo sconforto, ogni 15/20 minuti mi devo fermare e ormai ho appurando che mi sta venendo una cistite. In più ho un calo di zuccheri, non mangio da colazione e stupidamente non ho niente appresso, né barrette energetiche né altro, solo poca acqua e ancora un pochino di vino. Il mio orizzonte è fatto solo di campi e colline e il sentiero che li attraversa. Trovo un piccolo gruppo di persone che mi sembra quello visto alla Fuente de los Moros, mi siedo sul praticello dove loro stanno facendo siesta e butto lo zaino per terra. Qualcosa nella mia espressione li porta a venirmi in aiuto, mi danno cioccolata e una meravigliosa barretta energetica, mi salutano con la raccomandazione di stare sdraiata per qualche minuto e se ne vanno lasciandomi lì. La barretta fa il miracolo perché mi sento meglio nell’arco di pochi minuti, ma seguo il consiglio e rimango sdraiata a dormicchiare. Passa Heval con il figlio dei fiori. Dopo una mezz’ora riprendo il cammino e mi sembra quasi di aver dormito ore. Finalmente Los Arcos! Quando arrivo al rifugio sono tutti, italiani e no, sdraiati al sole nel prato di fronte e come mi vedono mi fanno un grande applauso. Evviva, non mi aspettavo una simile accoglienza! Qualcuno mi aiuta con lo zaino, mi porta a registrarmi e mettere il sello e mi accompagna al primo piano dove mi avevano conservato un letto sopra quello di Alberto. Doccia, lavaggio biancheria e poi vado a cercare una farmacia per farmi dare qualcosa che mi blocchi subito la cistite. Compro anche qualcosa da mettere in comune per la cena, visto che sono già stata avvisata che oggi si mangia tutti insieme pasta al tonno. Prendo pane, pomodori, dell’ottimo vino della Rioja e dei dolcini meravigliosi. Mentre mangiamo, comprese tre ungheresi e Monica dalla svizzera (che domani farà l’ultima tappa prima del rientro a casa), scoppia un gran temporale e la biancheria che era quasi asciutta si bagna tutta!
Avevo letto un cartello dove si avvisava che alle 20,00 nel duomo si celebrava la messa con successiva benedizione per i pellegrini, per cui dopo cena corriamo in chiesa. Subito dopo inizia la benedizione dei pellegrini; come a Roncisvalle veniamo chiamati all’altare, il prete dice invoca la benedizione su di noi, poi chiede le varie nazionalità per consegnarci una immaginetta con le scritte nella lingua di ciascuno. Quando arriva il mio turno (sono una degli ultimi pellegrini) di dire la nazionalità, mi fissa negli occhi, tira indietro la mano con l’immagine e mi dice “Tu il cammino lo hai già fatto. No es la primera vez” Io rispondo tranquilla che no, è la prima volta, non ho mai fatto il cammino. Sono serena, aspetto che mi dia l’immagine con la preghiera in italiano e passi al successivo. Invece mi pianta gli occhi negli occhi, sono chiari, ipnotici, dolcissimi e come trasparenti, mi ricorda quei film in cui negli occhi si nascondono le verità più antiche da leggere attraverso l’iride. Mi sento dentro una specie di vertigine, come se io entrassi in un tunnel profondo alla fine del quale intravedo luce nebbiosa e allo stesso tempo come se lui stesse leggendo nei miei occhi tutta la mia vita, le mie verità, le mie paure, il mio io più profondo e nascosto. Sono secondi ma sembrano ore. Sento salire lentamente le lacrime ma mi pare di poterle trattenere e attendo fiduciosa. Invece senza staccare gli occhi dai miei mi ripete le stesse parole “No, no es la primera vez. Tu hai già fatto tutto il cammino”. Me lo ripete metà in spagnolo e metà in italiano. A questo punto sono spaventata e se ne accorge, sono scoppiata a piangere senza controllo, mi sento osservata dagli altri che non capiscono cosa succede, mi vedono piangere senza sentire quello che il prete mi dice, allo stesso tempo è come se fossi lontana da tutti. Il prete, con voce bassissima mi sussurra “no tenes timore, no temer, il cammino l’hai già fatto todo ma ora lo farai con tu cuerpo. Vai tranquilla, arriverai a Santiago sana y salva e con serenidad, non ti succederà nada porque estas andando verso una llamada. Requerda che tu es fortunada porque habe una llamada”. Con queste parole spegne gli occhi (la sensazione è proprio quella, di due lampade che si spengono) e passa al pellegrino successivo, lasciandomi lì in preda a una vertigine, sentimenti contrastanti che turbinano nella mente. In un lampo mi ricordo che sono le stesse parole che mi aveva detto Annamaria alla stazione di Genova. Paura, spavento, dubbi, incredulità lasciano il posto a un’emozione intima e sento scendermi addosso una gran tranquillità, come un manto di protezione. Mi rendo conto che sono protetta, da chi o da cosa non so ancora, ma sono privilegiata rispetto a tanti altri perché io so già che non mi succederà nulla di male, il cammino mi darà solo gioia. Fatica sì, dolori fisici e interiori anche, ma tanta gioia e serenità. Lo so, adesso lo sento. Sarà faticoso pensare alla propria vita e ricordare e di sicuro farà male riconoscere i propri errori e pentirsi ma……..farà bene all’anima eliminare il veleno che dentro di sé si accumula nel corso degli anni senza neanche accorgersene. Sono felice, ho addosso una felicità pulita e leggera, il cammino farà del bene a me che lo affronto e di riflesso a chi mi circonda.
Giriamo per la chiesa, bellissima, saliamo sulla balconata prospiciente l’altare. Sono in uno stato particolare, mi sembra di non poter parlare ancora, sono scossa. Vedo e sento addosso gli sguardi degli altri che non hanno sentito ma hanno capito che qualcosa di particolare e importante è successo. Andiamo in una piazza vicina dove ci sono le cabine telefoniche, alcuni pellegrini devono telefonare a casa. Uno di loro ha uno sguardo da “ecco la donnetta che piange”, ma niente mi tocca, ha sentito poco e niente di quello che mi ha detto il prete e non può capire. Quando si va a dormire qualcuno fa una battuta, che ora non ricordo, e comincia la ridarella, di quelle contagiose. Una giornata che finisce con una risata non è stata una cattiva giornata! """
 
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3° cammino, Camino del Norte: L'arrivo a Santiago

""""Mi sveglio prestissimo, alba ancora senza luci, e sento subito, prima ancora di alzarmi, il dolore che da giorni e giorni mi accompagna, un pulsare sordo e continuo all'interno della caviglia destra. E' da giorni ormai che non mi abbandona, in certi momenti è una frustata violenta, mi toglie il fiato e mi viene voglia di lasciarmi andare per terra. Poi, continuando a camminare, un pochino passa. Mi ripeto che non è niente, camminando diminuisce, me lo ripeto ma non è proprio così e lo so bene che ho fatto qualche danno al tendine ma ormai.... Poggiare il piede per terra è una sofferenza enorme, probabilmente la tendinite è iniziata proprio per colpa del tallone destro, tallonite, infiammazione cronica del tallone. Ma oggi è una sofferenza enorme, mi sembra peggio del solito. Oggi arrivo a Santiago, non posso fermarmi ora, non posso. Mi faccio forza, mi alzo, mi preparo e via, con passo vergognosamente lento. Non seguo il cammino sulla destra all'interno dei campi, seguo al carrettera sino all'uscita da Arca o'pino, sino all'incrocio con il sentiero sulla sinistra. Vado piano piano, il dolore è continuo ma più lieve. E' il giorno dell'arrivo e vorrei concentrarmi un pò di più ma il mio stesso zoppicare mi distrae continuamente, sento addosso tutti i 40 giorni passati a camminare, sali, scendi, risali, riscendi, 40 giorni inseguendo il mio io lungo la costa, un pò di spiaggia, un pò di campagna, scogliere, boschi. Mi viene quasi da piangere.
Vado, sempre lentissima, ma vado avanti, arrivo a Labacolla e mi ripeto per rincuorarmi che oramai è fatta, manca poco.
Ma quanto è dura oggi, quanto mi sembra difficile. Mi sento come se una forza enorme cercasse di fermarmi lì, come se qualche potente vento mi respingesse e cercasse di impedirmi l'arrivo.
Devo andare, manca poco.
Con mille e una sosta arrivo al Monte de Gozo, sotto quel brutto monumento creato per la Giornata mondiale della Gioventu. Mi siedo sul muretto che circonda la chiesetta. Basta, è la fine. E' vergognoso arrivare a Santiago con un mezzo ma il mio corpo si rifiuta di andare avanti. Non riesco più nemmeno a fare un passo, mezzo passo. Il dolore è lancinante.
Eppure manca poco.
Piango, prima una timida lacrima, poi due, poi un ruscelletto scende dagli occhi e non riesco più a calmarmi. Tolgo la scarpa e la fasciatura che da giorni tolgo a intervalli regolari solamente per spalmare Voltaren.
Provo a mettere nuovamente la pomata e la fascia elastica ben stretta. Poggio i piedi per terra, (non mi sono tolta nemmeno lo zaino!) per provare a camminare ma la fitta lancinante sotto il tallone si irradia per tutta la gamba. Basta, non riesco a fare quei due km che mancano alla città.
Cavolo, manca poco!!!
Riprovo, sto sempre piangendo e non riesco a calmarmi, mi rendo conto che un tizio, l'autista del pulmino di appoggio di un gruppo di ciclisti, si sta avvicinando con sguardo di pena per me, mi domanda che c'è, chiede di cosa avrei bisogno. Non so come dirgli che vorrei solo un pò di forza per terminare il mio cammino e mi rendo conto che sto guardando con bramosia il suo pulmino, già mi ci vedo seduta per arrivare a Santiago.
Non posso, non posso proprio fare in macchina gli ultimi km, ma quanto lo vorrei.
Provo nuovamente a rimettermi in piedi, con fatica resisto stando però ferma, poi un passo, un altro, altri due, tre, quattro passi lenti e tristi. Non è così che volevo arrivare.
Devo farcela, devo, manca poco.
Stringendo i denti e con il cuore che lacrima comincio la discesa verso la mèta, un piccolo passo dopo l'altro. I gradini poco prima del ponte di ingresso alla città sono tante frustate alla caviglia, ogni passo in più è un chiodo che penetra. Ma vado avanti. Mai come stavolta mi è sembrato lungo attraversare la città per arrivare alla piazza, all'incontro con il Santo.
Man mano che mi avvicino al luogo conosciuto il dolore pare diminuire, è come se arrivasse insospettabile un aiuto. Un passo un passo un passo un passo, guardo in terra e ogni tanto sollevo lo sguardo per rendermi conto delle distanze. Se non guardo fisso davanti mi sembra di fare più strada. Gli ultimi metri prima del portico che immette in piazza Obradoiro li faccio quasi velocemente, come anestetizzata, non sento più niente, nessun dolore ma anche nessuna gioia, nessun sentimento.
Esplode tutto quando sono davanti alla cattedrale: pianto liberatorio, pianto di disperazione per il dolore che improvvisamente scoppia nel piede destro, nella caviglia, della coscia, pianto di gioia perchè sono riuscita ad arrivare sulle mie gambe, pianto di delusione perchè è finito tutto, sono arrivata al Santo."""""""

Dopo.......
Non era una semplice tendinite, al rientro a casa il medico mi prende a urla, sono stata incosciente, sono pazza furiosa, che cosa credevo di fare ecc.. C'è il distacco del tendine, la caviglia poco sopra il malleolo è nera, un edema spaventoso mi gonfia tutta la gamba sino a ginocchio. Se poggio un dito rimane un buco per tanto tempo.
Però sono arrivata a Santiago con i miei piedi, senza una vescica e con una brutta tendinite che mi sono trascinata poi per mesi e mesi.
Ma sono arrivata a Santiago e ne valeva la pena, ne vale sempre la pena. Ci ritornerò.
 
Post trasferito

Dopo aver passato la notte ad Ayegui, al deportivo su un materasso a terra, decido di partire prestissimo.
Sono con Raffaella, la persona con cui ho più legato durante il mio cammino di Santiago, un'amica che non dimenticherò.
Facciamo una colazione abbondante e via al buio. In men che non si dica raggiungiamo il Monastero di Irache, ovviamente chiuso, e subito dopo la fonte del vino, data l'ora sgorga solo acqua, il vino ce lo sognamo.
Ad un certo punto troviamo una deviazione, andiamo a destra, percorriamo un sentiero bellissimo, in mezzo agli alberi.
Ci succede una cosa strana, passando in mezzo agli alberi mi accorgo di rompere delle ragnatele, mi viene il dubbio che di li non sia ancora, almeno per quel giorno, passato nessuno, guardo a terra e vedo dei segni di copertone di bicicletta, mi rincuoro e andiamo avanti. Arriviamo su di un'altura e vediamo la valle sotto di noi.
Degli altri pellegrini neanche l'ombra.
Ad un certo punto raggiungiamo Luquin e li ci rendiamo conto di aver fatto un'altra strada, anche questa segnalata con le frecce gialle, ma non abbiamo visto Villamayor de Monjardìn e la Fuente de los Moros.
Dopo circa un chilometro ci ricongiungiamo con il percorso classico. Dopo una mattinata in perfetta solitudine incontriamo la solita moltitudine di persone e tutti ci passano davanti. Attraverso campi di grano tagliato e vigne per una strada bianca arriviamo a Los Arcos.
Quanto silenzio oggi.
Ci fermiamo a mangiare, boccadillo buonissimo con la frittata, pollo con peperoni, una clara e per finire caffè con leche (non posso rinuciare a questo vizio).
Visitiamo la bella chiesa di Santa Maria, qui è conservata una icona della Virgen Negra del 1300, c'è un chiostro gotico e un grande organo barocco. Non sempre si riesce a visitare le chiese in questo orario, ma qui ci è andata bene.
Poichè le gambe tengono bene decidiamo di proseguire verso Torres del Rio. Tra Los Arcos e Sansol tantissimi vigneti e strada bianca.
Tra risate e fatica arriviamo alla strada asfaltata che porta a
Sansol e qui il fattaccio.
Mi sono distratta un attimo e ho fatto un capitombolo clamoroso. Con il perso dello zaino, e il peso mio, mi sono spiccicata a terra, ho battuto la testa, mi sono fatta male alla mano sinistra, un'abrasione vistosa sulla gamba destra.
Panico!! Ho il terrore di essermi rotta qualche pezzo, ma non per il male in se stesso, ma per la paura di dovermi fermare.
Per fortuna tutto bene. Raffaella mi ha dato dell'arnica come antidolorifico e disinfettato con della tintura madre di calendula.
A fatica arrivo a Sansol e vediamo l'insegna di un albergue: uno scherzo c'era solo una macchinette per le bibite. Stavo per perdere la pazienza, anzi l'ho persa.
Usciamo dal paese e arriviamo a Torres del Rio (sono vicinissimi). Albergue pieno.
Ed ecco che dopo un attimo di sconforto la giornata volge al meglio.
L'Alcalde ci apre il Municipio e ci permette di dormire in una sala. A terra, ma a me viene da piangere dalla commozione. Da cinque o sei che eravamo appena arrivati, ci siamo trovati in una trentina a sistemare al suelo le nostre cose.
A casa Mary ci permettono di fare una bella doccia e poi sono andata a visitare la chiesa del Santo Sepolcro. E' una costruzione di forma ottagonale costruita nel XII secolo e la sua cupola svolgeva la funzione di faro guida per i pellegrini.
Un pò di spesa e poi a riposare.
Che bello dormire in tanti, tutti per terra.
Ma quando mai a casa avrei sopportato tanta fatica.
Qui si riesce ad essere contenti per piccole cose. Essere contenti perchè ti lasciano dormire per terra, ma almeno sei al riparo.
Quando trovi da mangiare, una fonte di acqua fresca, qualcuno con cui fare due chiacchere, un prato dove riposare e toglierti le scarpe.
Ora devo smetter di scrivere. Si spegne la luce.
Buonanotte Silvana, dormi bene.
 
1° Cammino di Santiago. 2003 - 2^ tappa

Larrasoana-Pamplona-Cisur Menor
Sei del mattino: il risveglio è rinascere a nuova vita, con l’entusiasmo per un’altra giornata di novità. Non sento la fatica dei due giorni precedenti, le gambe non danno segni di indurimento, i piedi sono a posto, la mente è come una nuova pagina del quaderno: libera e pronta per altri pensieri da scrivere. Parto alle sette, più veloce della luce, senza fare colazione. Sta sorgendo il sole ed il sentiero è tutto in salita. Forse ho parlato troppo presto: sono già stanca, lo zaino mi sta uccidendo le spalle e la schiena. E’ un continuo saliscendi, con sentieri che costeggiano, dall’alto, un fiume – il rio Arga. In certi punti il sentiero è veramente stretto e ripido. Non trovo un negozio o un bar per prendere qualcosa e mi devo accontentare di acqua e della frutta secca che ho portato da casa. Il mio regno per un caffè! Vicino a una fontana in mezzo al verde mi fermo per riposare un po’ i piedi e per riempire le bottigliette. Sono passati in tanti e tutti sorridono e fanno un cenno di saluto, Hola!, anche se non sono spagnoli. Imparerò anche io a dire “Hola!” con la stessa naturalezza? Sì, faccio parte anche io di questo mondo pellegrino in terra di Spagna. Mentre sono seduta su un muretto di fronte alla fontana, cercando di sistemare bene le calze, una signora francese che fa il cammino con il marito (presumo sia il marito), mi si avvicina e mi fa vedere che le calze vanno girate al rovescio in modo che le cuciture, per quanto piatte, rimangano all’esterno e non premano sulle dita dei piedi. Miracolo! Il mondo assume una colorazione diversa! Ma perché non ho pensato che quel senso di oppressione alle dita potevano essere le cuciture? La signora (capelli bianchi corti e faccino simpatico, sorride anche con gli occhi), che per tutto il tempo ha parlato un francese veloce per me incomprensibile (sempre assistita dal baffuto marito sorridente e silenzioso), poco prima di andare mi dice (unica cosa che capisco), riferendosi alle mie calze rivoltate, “consiglio di vecchia mamma francese”. Mi piace questa coppia anzianotta (avranno circa 65/70 anni per ciascuno), sono sorridenti e tranquilli, chissà se faranno tutto il cammino di Santiago e se li ritroverò?
Mi ci vogliono circa quattro ore per arrivare a Trinidad de Arre, cittadina carina dove si entra attraverso un bel ponte. Subito dopo il ponte una chiesa e poi il rifugio, chiusi entrambi. Proseguo sotto un sole implacabile lungo un viale di cui non vedo fine. Ci sono – lungo tutta la via – degli alberi potati in modo così strano, non avevo mai visto un simile metodo di potatura, come se i rami di un albero fossero tagliati in modo da unirsi ai rami dell’albero vicino. Penso che quando ricresceranno le foglie, si formerà una sorta di fresco pergolato. Esco da Trinidad de Arre in direzione Pamplona, poi mi ricordo che al rifugio avrei dovuto bussare per farmi mettere il sello. Che peccato, ma non torno indietro per niente al mondo, continuo a trascinarmi come una disgraziata sino a Burlanda, periferia di Pamplona. Comincia qui la mia brava figura da cretina. Mi serve con una certa urgenza l’ufficio postale per spedire a casa il tot di cose che ho selezionato ieri e siccome non so come si dice POSTA, decido che la cosa migliore è cercare l’ostello, lasciarvi lo zaino e più leggera andare alla ricerca dell’ufficio postale. Ah, il mio spagnolo così scarso! Invece di refujo por peregrinos, mi viene la brillante idea di chiedere “donde estas l’hospital”, ricordando che gli addetti all’accoglienza si chiamano Hospitaleros e di conseguenza il rifugio non può chiamarsi che Hospital!! Mi fosse venuto un minimo dubbio, niente di niente. Morale: mi mandano dall’altra parte della città, sulla via per Santiago (!) all’Ospedale! Quando realizzo l’errore sono ormai davanti al policlinico, in coma per la disidratazione e per il peso che mi piega in due. Fermo una signora per chiederle come rientrare in centro città e costei, per tutta risposta, infila le mani nella tasca della giacca e mi dà 50 centesimi, mille lire di elemosina! Dai precordi mi sale una sfilza di parolacce, mi viene da piangere e da ridere, una risatina nervosa. 50 centesimi! Mi vedo riflessa nella vetrina di un bar: ha ragione la signora, a parte la conchiglia e il bordone che in ogni caso fanno di me una pellegrina, sembro una barbona.
Per fortuna trovo un’altra signora, gentilissima, che mi accompagna con l’autobus 4H sino all’ufficio postale, che scopro chiamarsi “Correos y telegrafos”. Per 24,35 preziosi euro mando uno scatolone di biancheria sporca e altre cosucce a mia madre e, più leggera nel fisico e nell’animo, vado alla ricerca del rifugio. Trovato, in cima a una torre con scaletta stretta: è pieno. In verità un posticino ci sarebbe anche, ma solo un piccolo spazio di emergenza per terra. L’hospitalero è indeciso se farmi restare ma arriva un ragazzo italiano, toscano, con i piedi pieni di bolle e con lo sguardo disperato. Forse l’hospitalero si sente in colpa perché sta quasi per sistemare me e non può farlo per il toscano e allora decide che no, non ci sono più posti per nessuno. Sono stanchissima ma – ora che ho lo zaino più leggero – decido di non cercare alloggio a Pamplona ma proseguire facendo la strada con Alberto (così si chiama il toscano) sino al prossimo rifugio a Cizur Menor, a soli 4 km. dopo Pamplona. Andiamo, a passo lento e un po’ distanziati l’uno dall’altro. E’ una casa privata, con un gran bel giardino, bagno in un container all’esterno della casa. La signora che mi accoglie sente che sono italiana e con grandi sorrisi mi dice che mi sistema con “los italianos”. Quindi mi accompagna attraverso un labirinto di stanze e passaggi pieni di letti affiancati l’uno all’altro, brande sistemate ovunque sino a una camera (sembra un ex stalla!) con sei letti: uno è per me. Los Italianos non sono altro che i soliti italiani già visti più il nuovo acquisto toscano che è arrivato, nonostante le ampollas, cinque minuti prima di me. Doccia caldissima nel container, lavaggio biancheria, e poi me vado in giro per la cittadina, carina e pulitissima. Cerco un supermercato perché, esperienza insegna, è meglio avere appresso qualcosa per fare colazione la mattina, dato che i bar aprono tardissimo, quando ci sono. Faccio rifornimento di latte condensato in tubo, succhi di frutta energetici e biscotti: ho lo zaino più leggero, quindi posso permettermi gli acquisti.
Alle otto cena in un ristorante vicinissimo al rifugio, poi a letto. Pazienza per il letto cigolante, cerco di non muovermi più di tanto.Il mio bordone veglia sul mio sonno, l’ho sistemato di fianco a me ed è consolatorio pensare a come mi accompagna con le preghiere di chi l’ha inciso per me e di tutti quelli che con amore me l’hanno regalato. Lo sistemo in modo tale da vederlo se apro gli occhi: è il mio bastone!! La stanza sembra un accampamento di zingari, con cordicelle tirate da una parete all’altra e tutta la biancheria stesa ad asciugare sopra le nostre teste. Ci mettiamo a dormire con le gocce della biancheria che scendono su di noi. Ma la stanchezza è tanta.......
 
1° Cammino di Santiago - 02 maggio 2003
Burgos-Hontanas
Anche oggi tappa con i fiocchi! Cominciano le mesetas, famose famigerate “mesetas”. Non so cosa mi aspetta e sono in trepida attesa. A casa quando leggevo di questi altopiani mi spaventavo, ora non vedo l’ora di attraversarli per scoprire perché spesso vengono considerate l’emblema del cammino. Tutto facile la mattina presto. I miei cinque amici hanno fatto colazione, mi hanno conservato un po’ del loro caffè e mi spronano a partire velocemente. Dico loro di andare e con calma parto anche io. Chissà dove sono Clare e Pedro? Non c’è traccia di altopiani, il cammino prosegue lungo una sorta di vallata, è facile e non troppo faticoso. Quando arrivo a Tardajos vedo andar via gli italiani, si erano fermati a fare una pausa/colazione. Nel bar dove entro arriva Pedro, alla mia domanda su come sta lui scoppia in un pianto dirotto. Trasecolo! Mi spiega nel suo inglese lento e misto allo spagnolo/portoghese che Clare ha preso un bus per non fare le mesetas. E lui è triste. Che dirgli per consolarlo? Niente, gli faccio una carezza sulla guancia e vale più di mille parole consolatorie. Il ragazzo si deve essere preso una cottarella per la piccola irlandese. Dopo una piccola colazione vado in direzione della mia prima meseta. Si sale, per ora non troppo faticosamente, ed eccolo: altopiano che sembra sterminato ma non lo è. In effetti non c’è niente, campi di cereali, tante pietre e le amiche frecce gialle a dirmi che non posso perdermi. Discendo e poco dopo altra ascensione, sempre abbastanza facile. Questa seconda meseta è più lunga o forse mi pare così per via della fatica che mi sta calando addosso. Mi sorpassa Maria, francese che trovo molto simpatica. Poche parole e mi dice che forse si ferma a San Bol (il rifugio amato da Lucia di Palermo!). Io cammino molto lentamente, sento il caldo e la fatica. Non c’è un albero manco a pagarlo, solo in lontananza si vede un’oasi, sembra un miraggio. Quando arrivo abbastanza vicino scopro che è l’oasi di San Bol ma bisogna deviare per andarci. Ci vado! Che posto strano, aveva ragione Lucia, ha un’aria molto new age. Murales dipinti all’esterno della costruzione, sui muretti che circondano il rifugio vero e proprio. La costruzione è in due parti unite da quella che dovrebbe essere una sorta di cucinotta-soggiorno-andito. A destra di chi entra c’è il locale dormitorio, vedo pochi letti a castello. Sulla sinistra la particolarità di questo piccolo albergue: un locale circolare, con la volta a cupola dipinta di blu con stelle gialle. Lungo tutto il perimetro una panca in muratura e al centro un mobile basso, quasi fosse un altarino. Dovrebbe essere una sorta di “chiesetta”, vista anche la croce esterna in cima alla cupola, ma a me ricorda più un locale dove celebrare riti esoterici o magici. La parete circolare è totalmente dipinta, mi aspetto da un momento all’altro di veder comparire uno sciamano o una specie di guaritore ispirato. Mi ricorda molto, chissà perché, i figli dei fiori e i loro raduni colorati. Attorno al tavolo della cucinina trovo Maria che beve caffè in compagnia dell’hospitalero e di altri due pellegrini di una certa età. Mi fermo mezz’ora, il tempo di riposarmi, bere anch’io un caffè e farmi mettere il sello. Con Maria prendiamo in considerazione l’ipotesi di fermarci per questa notte ma quello che ci scoraggia è la mancanza di acqua all’interno del rifugio: particolarità di San Bol è la sorgente naturale all’esterno della costruzione, nel bel mezzo del boschetto a 20 metri. L’acqua è gelida e scorre con potenza. Forse anche in questo potrebbe vedersi il vero pellegrino, quello che non sente il disagio di lavarsi con acqua veramente fredda e non teme le scomodità. Ma non mi sento così predisposta al sacrificio. Con Maria decidiamo che abbiamo bisogno di acqua calda e, tirati su gli zaini, riprendiamo insieme la strada. Gli ultimi cinque km sono una pena, si fa sentire talmente tanto la fatica e il caldo, non si vede la fine della meseta. Ci facciamo forza l’una con l’altra, parliamo il nostro idioma pellegrino, un misto di inglese elementare, italiano, spagnolo e francese (in certi momenti – sembra incredibile ma è così – non riesco a trovare le parole italiane e le trovo in altre lingue!) ridiamo di tutto e ci sproniamo a vicenda. Calcoliamo che ormai manca poco al paese ma non arriva mai. Improvvisamente eccolo: si apre la meseta e sotto di noi compaiono i tetti, il paese è ai nostri piedi e sembra quasi di caderci dentro, come se a causa di un terremoto si fosse aperta una voragine. Alberto e Giorgio erano di vedetta e ci aspettavano, o meglio aspettavano me ma saltano su felici e gioiscono nel vederci tutt’e due. Corrono avanti e indietro, vanno a dare l’annuncio agli altri che ci vengono incontro. Che è successo? . Al nostro ingresso in paese suonano le campane, è una coincidenza ma sembra fatto apposta, una festa tutta per noi due. Mi spiegano che erano veramente preoccupati perché la meseta, così spoglia senza alberi, è dura.
Purtroppo per noi due non c’è un letto nel rifugio e così l’hospitalera ci porta in una dependance, una specie di aula enorme spoglia e fredda, una parete totalmente occupata da una vetrata, con tanti letti a castello in ferro. Il refujo vero, dove sono sistemati gli altri italiani, è molto antico, bellissimo e appena restaurato. Al primo piano ci sono i letti, bei letti a castello tutti in legno distribuiti in camere da 8. Tutta la costruzione è in pietra a vista, con vetrate interne che fungono da pareti e uniscono i due piani. I bagni sono sia al piano terra che al primo piano, tante belle docce ma bisogna aspettare almeno un’ora perché si riscaldi l’acqua nei boiler. Ne approfitto per fare un giretto in paese. Paese? E io che cercavo uno sportello Bancomat! Quattro case di pietra messe in croce e una bellissima e grande fontana-lavatoio con acqua freschissima dove metto a mollo i piedi e ce li lascio sino a che sento freddo. Non si vede in giro quasi nessuno, la chiesetta è buia e vuota, tante case sono in rovina, non ci sono negozi ma solo un bar che vende anche alimentari e funziona da ristorante ma è così sporco da far passare la voglia di mangiare. Per fortuna non abbiamo il problema di dover fare la spesa perché la cena la prepara l’ospitalera. Riesco a farmi una doccia tiepida ed è già ora di mangiare. Si cena, tutti insieme, in una saletta con un grande camino nel rifugio antico. Dopo mangiato sostiamo nelle panchine sulla strada, sembriamo lucertole che catturano gli ultimi raggi di sole. Forse noi pellegrini siamo gli unici abitanti di tutta Hontanas?
Nel tardo pomeriggio c’è sempre un po’ di malinconia, sarà l’aria, saranno i colori del tramonto, forse siamo noi che viviamo giorni particolari e, con acuita sensibilità, sentiamo vibrazioni che fanno tremare il cuore. Ma a una certa ora sembra quasi salire una sorta di tristezza che però non è proprio tristezza, quello che io chiamo struggimento. Malinconia.
Con Maria ci organizziamo per andare a dormire ma prima porto una pomata antibiotica a Renzo, uno dei ragazzi, che ha una gamba piena di punture di insetti (forse pulci che lo hanno punto nel letto a Burgos?). Mi promette che domani mattina mi porterà il caffè a titolo di consolazione per la mia squallida sistemazione in dependance. Maria ed io ci sistemiamo su due lettini affiancati e dopo tre secondi lei sembra già profondamente addormentata. Io cerco di addormentarmi ma c’è ancora molta luce, le vetrate non hanno tende e così ho il tempo di avere la visione di un pellegrino (che conosco sin dai primi giorni perché spesso ci sorpassiamo a vicenda, lo incontro negli albergues e so essere tedesco), che nel prepararsi per la notte rimane in mutande. Sin qui niente di strano, tutti i pellegrini dormono in mutande perché il pigiama è un peso in più nello zaino, ma il bello di queste mutande è che sono stampate come se fossero un giornale, con gli articoli. E’ come se qualcuno avesse preso un quotidiano e ne avesse ritagliato uno slip! La cosa più buffa è che su una natica gli risulta la scritta “AMORE” a caratteri cubitali. Mi viene da ridere e nel girarmi sul fianco destro incrocio lo sguardo di Maria che sembrava addormentata ma, attenta anche lei a ciò che succede intorno, ha colto il particolare. A questo punto ridiamo come matte senza ritegno. Il pover’uomo in mutande non capisce perché e ride con noi. Anima candida.
 
pausa pranzo in biblioteca.
dentro il bel sole che oggi riempie di allegria e bellezza anche milano.
pane fatto in casa e un formaggino.
mangio.
e intanto leggo.
leggo, sardina.
leggo tue parole.
tue emozioni.
tua vita.
leggo tua vita come tu avevi letto la mia.
condivido con te.
condividi con me.
anche se siamo lontane.
anche se non ci conosciamo.

grazie per la vida compartida.
grazie per la compagnia che mi hai fatto.
grazie per i nostri passi che camminano insieme.

un abbraccio.
a presto.
per nuove parole.
per nuovi racconti.
per nuova vita da regalare.

cri

ps.: leggerti, stamattina, mi ha emozionato.
 
Voglio postare una foto che ho fatto nel 2005 sul cammino aragonese. Non ha bisogno di troppi racconti perchè parla da sola.
Vi dico solamente che la persona che sta sulla carrozzina è un pellegrino di Stoccarda che faceva il cammino, da solo, spingendo con la forza delle sue braccia la carrozzina, naturalmente per ovvii motivi solo su asfalto. In certe salite, io sul sentiero che costeggiava la strada, la voglia di aiutarlo era notevole ma non ho mai avuto il coraggio di farlo perchè mi sembrava quasi di intromettermi in un cammino per la vittoria.
Se è il caso Edo sistema tu la foto, forse è troppo grande. Grazie
 

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Carissima Sardina in questa meravigliosa foto c'è tutto e ci sono tutti ... ci sono Mario e Giovanni che sono stati chiamati da Nostro Padre ... ci sono Ugo e Matteo , Granchio e tutto un mondo spesso dimenticato
Scrivo con le lacrime agli occhi perchè uno dei miei sogni è quello di veder realizzarsi un Camino per i nostri amici disabili verso le Sacre Spoglie dell' Apostolo :arrow:
 
è banale dire che anche a me questa foto ha fatto piangere .....Andrea non c'è più...ma questo ragazzo che spinge la sua carrozzella è Andrea...è Mario...è Giovanni ....e tutti quelli che se ne sono andati senza sapere che anche loro potevano esserci....ma anche quelli che sapranno di poterci essere.....e spero siano tanti...Ugo e Matteo compresi...
 
1° Cammino di Santiago - 03 maggio 2003

Hontanas-Boadilla del Camino
Come promesso ieri, Renzo mi porta il caffè. Sono già in piedi, lavata e vestita, quasi pronta a partire e mi ero scordata del caffè. Lo mando giù con riconoscenza, mi ci voleva una sferzata di energia! Maria è già partita senza che io mi sia accorta di niente, l’uomo dalle mutande “tipografate” dorme alla grande, spunta solo un ciuffetto di capelli ispidi dal sacco a pelo. Vado. Ogni volta che parto dò sempre un’ultimo sguardo al rifugio, un po’ per imprimermelo in mente un po’ per salutarlo, ma stavolta non ne ho proprio voglia, non mi è piaciuta per niente questa sorta di camerone-aula scolastica.
Per la prima volta partiamo tutti insieme, anche gli altri vanno pianino, si cammina con il mio ritmo. Dopo qualche Km. passiamo attraverso dei ruderi, ciò che rimane di un vecchio convento, San Anton. E’ molto suggestivo e sembra di vedere i fantasmi gironzolare attraverso ciò che rimane di vecchie e maestose mura. Andiamo avanti sempre tutti insieme sino a Castrojeriz. E’ ancora presto e possiamo permetterci una sosta per fare colazione in un bel bar miracolosamente aperto! Strano, alle otto del mattino un bar aperto? E per giunta tutto pulito, nuovo. Il barista è gentile, sembra nuovo del mestiere e un po’ meravigliato dal vedere pellegrini. Di fianco al bar una bella chiesa, che naturalmente non si può visitare perchè, indovina? Chiusa! Sulla collina che sovrasta il paese si vede ciò che rimane di un castello. Fatta colazione andiamo in giro per il paese cercando un supermercato per fare un po’ di spesa. Gli altri mi hanno detto che l’intenzione è quella di arrivare sino al rifugio italiano di San Nicolas, che dovrebbe però essere chiuso, mangiare qualcosa e poi proseguire. Invece di seguire esattamente le tappe indicate dalla guida (quella prevista per oggi sarebbe troppo lunga) si decide di anticipare la sosta notturna a Boadilla del Camino e fare sei km. in più domani che invece dovrebbe essere tappa molto breve. Sono abituata a stare da sola e mi sembra strano muovermi, a quest’ora, con altre persone ma di buon grado li seguo. Trovo anche il modo di recitare in tranquillità la mia decina quotidiana del rosario. Troviamo il supermercato e uno sportello Bancomat. Prelevo ma per fare la spesa è presto, è ancora chiuso. Meglio, posso stare seduta, giustificata, e sfruttare i momenti morti per riposare! Per un quarto d’ora stiamo in relax sino a che non apre il negozio, poi iniziamo il carosello tra i banconi e gli scaffali. Adoro i supermercati, sono sempre molto curiosa di scovare cose diverse e stranezze alimentari. Normalmente, in qualsiasi città mi trovi, vado sempre a caccia della specialità del posto, quindi anche qui non posso non dare uno sguardo veloce cercando qualcosa di particolare di questa zona. Quale sarà la particolarità? Giriamo nel negozio, riempiamo i carrelli di cui ci siamo forniti, torniamo indietro a rimettere al loro posto l’infinità di cose inutili che fanno solo peso e che non ci servono effettivamente. Facciamo rifornimento di barrette energetiche e succhi di frutta Pascal (particolari succhi vitaminici, con latte, estremamente buoni), polpo in barattolo (ecco la specialità del posto!), patè di non so cosa, tanto pane, formaggio e il solito chorizo, quella buona salsiccia spagnola di cui stiamo quasi facendo indigestione. Il mio zaino ritorna pesantissimo e subito dopo il paese c’è da affrontare la terza meseta! Quando me la trovo davanti mi viene il panico perché è ripidissima. Non ce la farò mai! è il mio primo pensiero. Il secondo è: devo farcela, se tutti la affrontano perché non posso io? Però mi sto guardando intorno per vedere se c’è alternativa. Non c’è, quindi gioco forza comincio la salita. Più che salire, arranco. Ogni tre metri mi devo fermare, faccio due passi e nuova sosta. Mi viene subito la tachicardia e la disperazione. Non posso fermarmi perché non ci faccio proprio niente ferma lì come una deficiente a mezza costa e non posso andare avanti perché non ci riesco. All’improvviso un angelo mi appare: non è una visione o allucinazione, ha le fattezze di un uomo sui 45 anni, piccoletto di statura, più basso di me e perfino un po’ mingherlino, mi pare. Si toglie il suo zaino e lo affida a un altro pellegrino, mi sfila il mio senza badare alle mie proteste e se lo carica sulle spalle, il tutto condito da un monologo in spagnolo di cui capisco poco e niente. Lo vedo andare su, piccolo uomo con mio grande zaino, a passo veloce e deciso mentre io, incredula, continuo l’ascesa con grande fatica nonostante sia senza pesi addosso. Quando arrivo finalmente in cima, trovo tutti che ridono di me, pensavano fossi morta lungo strada. Ridendo come matti mi raccontano di aver visto arrivare un omino con uno zaino UGUALE al mio, talmente uguale che aveva pure la mia bandiera sarda coi quattro mori. La loro meraviglia si è trasformata in perplessità quando hanno visto che di me non c’era traccia e che tale zaino veniva delicatamente deposto ai piedi di una gran croce e l’uomo se ne caricava un altro sulle spalle. A quel punto non capivano se ero bloccata sul sentiero, se stavo male, se avevo abbandonato o chissà che. Poi mi hanno vista spuntare con mezzo metro di lingua in fuori e lo sguardo perso nel vuoto. Me ne hanno dette di tutti i colori. Senza badare a loro ringrazio il mio angelo custode che prima di riprendere il suo cammino mi dice solo di pensare a lui quando sarò a Santiago perché ha bisogno di tante preghiere. Dopo una foto di gruppo e sosta per pochi minuti, gli altri vanno avanti e io lentamente ma rinfrancata comincio l’attraversamento della meseta. Altra breve sosta dopo un’oretta circa, presso una fontana-abbeveratoio dove ritrovo gli amici più un nutrito gruppo di pellegrini con autobus. Poi comincia un lungo tratto noioso sino a quando si arriva alla chiesa-rifugio di San Nicolas del Puente Fitero. Effettivamente il rifugio è chiuso, ma c’è una bella fontana d’acqua fresca (una vecchia fonte a leva, quelle dove bisogna pompare per avere l’acqua. Sembra di essere tornati indietro di decenni e capitati in un vecchio film western) con un gran prato dove decidiamo di fermarci. Tutto intorno al rifugio, in pietra, ci sono piccole siepi di rosmarino ben curate e, a breve distanza, un boschetto di eucalipti. Il posto è molto carino, forse anche la bella giornata aiuta. Mangiamo, facciamo il caffè e dopo brevissimo riposo si riparte. Ma prima di ripartire lascio un biglietto in una fessura del muro, qualcuno lo troverà. Ponte medioevale da attraversare, mi faccio fare una foto prima di essere abbandonata al mio passo lento. Mi viene detto di proseguire sino a Boadilla e di andare al 2° rifugio, quello privato. Sissignore, obbedisco!
Lo sterrato è lungo e noioso e vado avanti per inerzia. Ci sono dei momenti, come sempre del resto, in cui mi sembra di non farcela più, ma poi (bastano cinque minuti di sosta) ritornano le forze. Un bel vialetto con alberelli sotto i quali mi fermo in continuazione introduce al paese e proprio all’ingresso un bel boschetto con panchine e tavoli in pietra e legno. Lungo la bassa recinzione dell’area pic-nic un cartello misterioso: “Sorgente a ruota”. Che mai vorrà dire? Ho una sete terribile ma non vedo alcuna sorgente e quel cartello ha un che di inquietante. Di fronte a dove sono seduta c’è un muro di pietre largo tre metri e alto due. Ci giro intorno e trovo una gigantesca ruota fissata al muro, in verticale. Mentre sto lì perplessa cercando di capire mi si avvicina un omino senza età, con un basco in testa, in abito scuro, pieno pienissimo di spillette appuntate sulla giacca. Ride di me e mi mostra come funziona la sorgente: acchiappare la maniglia che sporge dalla ruota e girare velocemente per qualche secondo, come si faceva a inizio secolo per far partire le macchine con la manovella! Mi diverto a girare vorticosamente la ruota e da un tubicino posto sotto esce l’acqua, prima sputacchiata poi a flusso potente. Riempio la mia bottiglietta e faccio fuori mezzo litro di acqua! Già mi sento meglio, gran brutta cosa la sete. Rinfrancata vado avanti, sorpasso il rifugio comunale e arrivo a quello privato, molto bello. Ricorda molto le nostre case campidanesi, con il giardino al centro e i locali intorno. Sulla sinistra di chi entra c’è la zona notte, una costruzione con una parte anteriore adibita a salotti e una più interna dove sono sistemati tanti letti a castello e i bagni. Acqua calda senza risparmio! Attraversando il giardino, al centro del quale, su una collinetta erbosa, c’è un monumento in ferro che rappresenta i pellegrini stanchi, e girando verso destra si arriva invece alla zona accoglienza, sala da pranzo e lavanderia. C’è lavatrice e asciugatrice quindi per oggi lascerò fare ai potenti mezzi messimi a disposizione per la cifra di 6 euro. Mentre la mia biancheria è al lavaggio, ne approfitto per farmi la doccia e poi, seduta sul prato, controllare una strana bolla sulla parte esterna del calcagno sinistro. Non è una di quelle vesciche che tutti i pellegrini hanno (tranne me!) ma deve essere l’effetto provocato da una spina che giorni fa mi si è infilata nel piede (mi ero tolta scarpe e calze e avevo camminato scalza su un prato) e che ricordo di aver deciso di lasciar stare perché non mi dava fastidio. Ora ha creato una bella infezione. Continua a non far male ma ho paura che possa peggiorare quindi decido di forarla, cercare di togliere la spina e disinfettare. Riesco a far uscire tutto il pus e inietto un po’ di Betadine all’interno della bolla: brucia da morire! Cerotto e via. Vedremo nei prossimi giorni come va. Di fianco a me Maria, bicchiere di birra a lato, cura le sue innumerevoli immense ampollas, i suoi piedi sono tutta una vescica tanto che tra me e me mi domando come fa ad andare avanti. Come se mi avesse sentito, con un gran sorriso mi dice che anche questo fa parte del cammino.
E’ già ora di cena. Oggi è il compleanno di Riccardo, 53 anni. Compro dall’hospitalero una piccolissima tortina, un muffin di 5 centimetri di diametro (questo offre la casa), mi faccio dare una candelina (usata) e sistemo tutto davanti al piatto di Riccardo. E’ da ridere quando spegne quella minuscola misera candelina che ho pensato di mettere lì per affetto. Non se lo aspettava e forse un pochino si emoziona, chissà? Osservo in silenzio la sala da pranzo e considero che è bello vedere intorno i visi dei pellegrini che giorno dopo giorno incontro, sempre gli stessi a cui si aggiungono ogni tanto volti nuovi che perdi per strada. Ma per ogni pellegrino che perdi ne acquisti uno nuovo e così via. Ci sono dei giorni in cui per strada non trovi mai nessuno e poi pian piano a sera tutti arrivano, ci sono dei giorni invece in cui cammini sempre con qualcuno, ti si affiancano, ti superano e subito dopo arriva qualcun altro. Giorgio e Claudio si litigano il minestrone, quei due ogni tanto si punzecchiano mentre noi come al solito assistiamo e osserviamo in silenzio. In un altro tavolino vicino si sono sistemati Josè, Pedro e Maria e in un altro ancora, con la coppia anzianotta di francesi, si siedono le due ungheresi. Ogni volta che le vedo devo lottare contro l’istintiva antipatia che provo per loro anche se a volte mi fanno un po’ pena. Non riesco, purtroppo, a essere in armonia con loro, anche se cerco di non dimostrarlo, le trovo invadenti e leggermente scroccone. Non è giusto e forse non è cristiano, mi sento stupida quando penso così ma è umano e normale che si possa non sentire simpatia per tutti. In certi momenti più che stupida mi sento cattiva e non vorrei essere così, non è da me esserlo, mi ripeto che non è questo lo spirito del cammino ma davvero, nonostante ci metta tutta la buona volontà, le due non mi piacciono affatto. Per contrastare i miei cattivi sentimenti, dopo cena mi siedo nel prato con loro e dato che non possiamo comunicare verbalmente perché non parlano alcuna lingua tranne che l’ungherese, ci massaggiamo a vicenda i piedi. Non deve vincere la mia cattiveria! Dopo un’oretta così loro vanno via (dormono al rifugio comunale) e io vado a letto. Anche oggi è passata, domani è un altro giorno e chissà cosa mi riserva il mio cammino di Santiago? Preghiera della notte lasciata a mezzo perché il sonno è più forte della volontà.
 

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Cammino del Norte – 16 aprile 2006 – Pasqua


Tappa lunga, faticosa. Partita da Bilbao. Oggi è Pasqua, giornata di festa ma non vedo differenza con le altre giornate. La Pasqua, la rinascita è dentro, sentirsi risorgere. Dovrebbe essere così, ma oggi non la sento.
Dopo ore di camminata (sono quasi le dodici e siamo in cammino dalle otto) l’illusione di un rifugio e di fianco un bar. Di fronte ad una piccola spiaggia. Giro intorno all’albergue: chiuso. Il bar: chiuso. Un cartello sulla porta dell’albergue dichiara che l’apertura è per le dodici e trenta. Non voglio fermarmi qui, ma ho bisogno di un bagno, vorrei il sello, fermarmi un pochino a riposare. E infatti decidiamo di aspettare. Nel mentre vado a visitare la chiesa, suppongo ci sia la messa di Pasqua, penso che tutti siano a messa, visto che non c’è un’anima in giro. Poche case, una spiaggia, il bar, non c’è altro.
Spingo la porta della chiesa e quasi travolgo il prete che stava per uscire. E’ tutto buio, spento, non c’è messa, non c’è nessuno. Il parroco mi dice che sta chiudendo, è piuttosto sbrigativo, ha paura che mi voglia fermare in chiesa? forse è ora di pranzo anche per lui? Non credo, gli orari spagnoli con contemplano il pranzo a quest’ora. E infatti, sbucano dalle poche case gli abitanti, vestiti con gli abiti della domenica e tutti si dirigono verso il bar che nel frattempo sta aprendo. Ora dell’aperitivo, suppongo. Chiedo al barista a che ora effettivamente apre l’albergue, sono già le tredici e nessuno si è visto. Fa caldo, ho fame, voglio un bagno!! Mi domando perché mi sono impuntata nel restare qui, mi sembra di essere una bambina capricciosa che punta i piedi. C. mi dice “andiamo”, è inutile stare qui. Prima ho sbirciato attraverso le grate che chiudono le finestre: vedo un salone con cucina e da un’altra finestra letti a castello nuovi, sembra tutto pulito. Il barista mi toglie ogni illusione: l’albergue è proprio chiuso, aprirà per l’estate. Telefono a J. E gli dico che ci raggiunta a Castro Urdiales.
Sconsolata tiro su lo zaino, riprendo la strada sotto gli occhi curiosi e compassionevoli dei clienti. Un ultimo sguardo alla spiaggia e poi inizio l’ennesima salita, direzione ovest, come sempre.
Lunga la strada sino a Castro Urdiales, salite e discese leggermente all’interno, dall’alto vedo il mare alla mia destra, mare sconfinato, bello. Sono figlia del mare, in acqua sono nel mio elemento. Lo guardo con senso di appartenenza, lo riconosco. Ogni tanto penso “oggi è Pasqua, è giorno di festa, Cristo è risorto, ogni anno risorge, ogni giorno”, pensieri stupidi che vanno e vengono, stupidi perché sono pensieri senza legame l’uno all’altro. Mi domando spesso perché sono sul cammino del norte, proprio su questo. Perché ho scelto questo e non un altro? Perché non il portoghese? O l’Inglese che è anche molto più breve? Mi affascinava l’idea di contemplare il mare o di camminarci accanto. Mi aveva colpito molto quando l’aveva fatto Luciano, pensavo a come l’aveva descritto lui.
Arriviamo a Castro Urdiales, un lungomare che si perde all’orizzonte, seguire le frecce non è complicato, lo diventa quando ci addentriamo nella città per trovare l’albergue.
Chiedo a destra e sinistra, pare che nessuno sappia niente e i pochi che, pensandoci un po’ su, hanno una velata idea del posto dove dormono i pellegrini, ci indirizzano ad un centro sportivo. Alla fine trovo una vigilessa, chiedo a lei e lei, dopo aver chiamato via radio, ci manda alla policia municipal. Altro girovagare per trovare il posto di policia (e continuo a pensare “oggi è Pasqua”), finalmente un tbrutto locale, piano rialzato, nella parte vecchia e periferica della città ha l’insegna che cerco. Gentilezza ma aria di mal sopportazione. Timbro sulla credencial e l’addetto dice di ritornare al centro sportivo, loro arriveranno subito per aprire. Forza, girare sui tacchi e imboccare la strada del centro sportivo, di nuovo! Per fortuna un poliziotto arriva subito, bello da morire che pare un attore, molto gentile. Apre il polideportivo, mostra il campo di pallacanestro, alcuni materassi poggiati al muro e capisco che quello sarà il regno per una notte. Precisa anche che, se vogliamo, possiamo uscire dalla porta antipanico ma se dobbiamo rientrare, è necessario ritornare al posto di polizia e avvisare che vogliamo tornare dentro, così loro vengono ad aprire. Domando cortesemente perché non ci lascia la chiave che poi l’indomani mattina la riporto io alla stazione. Mi guarda perplesso e secondo me sta pensando “ma che eresia dice?”. Niente da fare, nada, non se puede. La llave està alla stacion de policia! Se ne va, bel giovane con lo sguardo ammaliatore ma purtroppo malfidato.
Un giro di ricognizione nel centro mi porta a conoscenza della triste realtà: bagni o meglio cessi senza porte, doccia da spogliatoio, cioè una lunga fila di doccioni lungo una parete, nel grande locale immediatamente attiguo al campo da pallacanestro, senza alcuna privacy, è un corridoio di collegamento con docce!, acqua calda zero. Mi viene lo sconforto totale. E’ Pasqua!
Dunque, ragiono tra me e me, sono una pellegrina, non ho pretese, mi adatto a tutto, non chiedo più di quello che mi possono dare, non voglio le cinque stelle con colazione a letto, ma cavolo! Non me la sento di dover di nuovo andare alla policia ad avvisare che voglio rientrare se per caso dobbiamo andare a mangiare. E dobbiamo andare a mangiare!
La stanchezza mi sta facendo perdere il senso della realtà, ma non devo perdermi d’animo. Apro e chiudo la porta antipanico, cercando di capire se c’è un modo per non farla chiudere completamente ma niente da fare. Penso e ripenso…”e se andassi a prendere qualcosa da mangiare lasciando C. a guardia degli zaini? E se mandassi C. a prendere qualcosa e io rimango lì?” Ma mi fa paura restare in quell’immenso polideportivo circondato da vetrate, mi abbandono allo sconforto. Alla fine decido: prendo su lo zaino, e “io vado via, cerco un albergo o una stanza da qualche parte. Tu vieni?” Non mi sento una pellegrina al 100 per 100, ma è Pasqua del Signore, sono stanchissima, ho fame, mi sento lurida. Ci avviamo chiudendoci alle spalle la porta antipanico e penso alla faccia del bel poliziotto se per caso va a fare un controllo e non trova nessuno!
Piazzetta sul lungomare, le persone passeggiano, assaporano la libertà del giorno di festa, il giorno del Signore, sono tutti in pace con se stessi, hanno festeggiato, molti di loro sono andati a messa, hanno pranzato come si deve, ora gironzolano incontrando amici e conoscenti. E sta iniziando a scendere qualche goccia, poca cosa, ma sembrano le lacrime che sono lì lì per sgorgare dai miei occhi. Reagisco, e che diamine! È Pasqua, sono o no capace di trovare un posto per dormire? Fermo una ragazza e domando nel mio spagnolo scarso, zoppicante e cantilenante, dove posso trovare un alberghetto non troppo caro. Mi indica una via dove dovrebbero essere vari alloggi. Vado, ho lasciato lo zaino a C. che rimane in piazzetta, sperso. Nel frattempo telefono a J. e gli dico dove sono, mi dice che arriverà dopo un’oretta buona. Si sono fatte le sei. Trovo un’insegna di un albergo, suono alla porta chiusa e già la prima impressione è buona. Salgo al primo piano e una signora sorridente mi accoglie, è cortese, attenta. Secondo me fa finta di non vedere i pantaloni e gli scarponi polverosi, l’aria infelice che sento di avere. Non fa tante domande, non si meraviglia del mio aspetto ma quando le dico che sono una pellegrina di Santiago, si illumina e quasi mi abbraccia. La stanza c’è, costa 57 euro ma sono una pellegrina e per me costa 45, da dividere in tre. Non vuole nemmeno il pagamento anticipato al contrario di quanto è la norma. Mi tranquillizza, mi dice di andare pure a prendere lo zaino, la stanza è mia.
Torno in piazzetta e decidiamo di aspettare J. e quando finalmente arriva prendiamo possesso della stanza. Mi sta passando la tristezza, non del tutto ma va un po’ meglio. Ma perché questa tristezza? Nostalgia di mia madre e soprattutto penso alla sua di tristezza, la festa Santa senza me. Continuo a telefonarle tutti i giorni ma so che non ci crede che io stia bene, ha paura e la sua paura è incontrollabile, non può governarla. Forse oggi avrei voluto essere lì con lei, avrei voluto volare come una mosca, andare a farle gli auguri di persona e tornare subito sul mio cammino per Santiago. Ho nuovamente voglia di piangere. Sempre le lacrime in tasca!
Dopo le docce e i lavaggi biancheria nel minuscolo bagnetto, pulitissimo, andiamo a mangiare, finalmente.
Piove, degna conclusione. A pochi passi dall’albergo troviamo un localino minuscolo, cameriere italiano, proprietario italiano! Mangio come se fosse il mio primo pasto dopo giorni, come se fosse l’ultimo pasto della mia vita. Mangio tentando di annegare nei polpi, nei calamari fritti, nel grandissimo plato combinado, nel vino abbondante la mia tristezza di tutto il giorno, questa strana mia ricerca dei segni di una Pasqua che non ho trovato. Mi sento stupida, sono stupida, la Pasqua è dentro me, devo cercare solo dentro me la rinascita, il risorgere di ogni giorno. Non è così che si vive la Pasqua del Signore. Stupida stupida! Abituata a vedere i segni esteriori della festa e non sono stata capace di andare oltre, ora che sul cammino ne avevo l’occasione più di quando sono nella vita quotidiana. Mentalmente recito una preghiera chiedendo scusa per la mia pochezza. E’ stato un crescendo di passi sbagliati, oggi, di pensieri sbagliati.
Nel buio della notte sento i respiri tranquilli dei mie compagni di stanza, mi domando se anche loro hanno avuto i mie pensieri, le mie domande, i miei dubbi. Non lo so e domani non lo chiederò. Per tutta la giornata non ho fatto altro che pensare “è Pasqua” e non sono stata capace di viverla, la mia Pasqua.
 
Ciao Sardina,
ti prego, scrivi ancora, raccontaci ancora del tuo cammino di Santiago, o meglio, dei tuoi cammini..
Mi sono emozionata di nuovo leggendo i tuoi racconti, vedendo la foto e le risposte di Nazario e bellula.
Vi voglio bene
Un abbraccio morbido.
Silvana
 
Sardina
E ora mi domando anche una cosa, dopo averti letto: perchè non riesco più a mettere sul forum le pagine del mio diario??? Pudore? Vergogna? Poco tempo? Bohhhhhhhhh

Già! Perchè?
Mi piacerebbe leggere ancora qualche pagina del tuo diario e sono sicura che sarebbero contenti anche tutti gli altri pellegrinipersempre.
Un abbraccione morbido.
 
Non è una parte del mio diario, questo post, è altro.
E' il mio cammino di Santiago che vivo dentro ogni giorno, è la nostalgia che mi sta corrodendo dentro, vivo il cammino ogni giorno, dentro di me lo vivo e rivivo, lo leggo nei diari degli altri in cammino, lo sogno la notte, per strada mi volto all'improvviso sentendo un tic tic d bastoncini ed è solo un tic tic di tacchi alti, ogni cosa che vedo a forma di freccia mi riporta lì, giro e rigiro il mio braccialetto in gomma blu con le frecce gialle, lo guardo e - non mi vergogno - a volte dò un piccolo bacio ad una delle frecce, tocco con delicatezza il piccolo botafumeiro in oro che ho appeso alla catenine al collo, è l'ultima cosa che sistemo la notte (per non strozzarmi!) ed è la prima che tocco la mattina al risveglio e quando non lo trovo subito ho un tuffo al cuore, controllo in continuazione di avere gli orecchini a forma di piccole conchiglie che porto sempre e quando per qualche ora metto altri orecchini mi sembra di tradire, lavoro, guido un'ambulanza, vado a trovare la mamma, parlo con amici, scrivo lettere e risolvo problemi ma la testa al cinquanta per cento è altrove e quando ho finito di guidare, lavorare, risolvere, la mia testa è al cento per cento da un'altra parte: sul cammino.
Mille e mille immagini passano davanti ai miei occhi come ologrammi: Marie Claude con una frattura alla tibia, Hontanas che mi si apre ai piedi dopo tanta fatica, sdraiarsi davanti alla cattedrale con Renzo, Claudio, Klaus, Patricia, la volta che ho buttato con rabbia lo zaino per terra e ho pianto disperatamente durante la salita di O'Cebreiro, il vecchietto che non si reggeva in piedi e mi diceva in inglese che me lo portava lui lo zaino, Giancarlo di Roma che ho ritrovato a Santiago dopo giorni di sofferenza e ferite perchè era caduto nell'oceano dagli scogli di Finisterre ed è tornato per ringraziare Santiago per averlo tenuto in vita, i piedi di Federico rovinati ma che lo hanno portato sino alla fine, la mia preghiera quotidiana, una decina del rosario tutte le mattine, la sensazione di grandezza guardando l'oceano cantarbico dall'alto della scogliera, la mia gamba nera con il tendine andato, la dolcezza di Claire l'irlandese, la dolcezza e le lacrime di Pedro che pensava di non rivedere più Claire, la Fiesta a Najera con cioccolata regalata a tutti................................tanto, troppo da ricordare eppure riesco a ricordare tutto. I miei cammini. Riprenderò a scrivere e regalarvi le pagine dei miei diari, ma per ora i miei cammini sono immagini e flash: ora non riesco a fare di più, nell'attesa di ripartire e dedicarmi un pò di più a me stessa.
Un abbraccio a tutti i pellegrini, con amore grande
 
Sardina ha scritto:
Un abbraccio a tutti i pellegrini, con amore grande
Ricambio senza quotare altro...
:abbraccio:
Ultreya siempre,
Gio
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Ma il vostro posto è là, là in mezzo a loro
l’amore che vi ho dato portatelo nel mondo.
 
non ho mai scritto è la prima volta ....ma entro sempre a leggere in punta di piedi e conosco quasi a memoria i tuoi racconti di viaggio...il cammino per me è stato sempre un sogno ...non so se riuscirei a camminare così tanto ...infatti quando lo penso ...lo penso diviso in vari anni anche perchè ho un lavoro che non mi permette un mese di assenza...però sento che ci andrò ....sento dentro me una chiamata come quella che hai raccontato tu nel primo cammino....non so chi mi stia chiamando li ...ma sono certa che ci andrò...i tuoi racconti sono pieni di spiritualità e sono così coinvolgenti che mi sembra di camminare li vicino a te....grazie cara per tutte le emozioni che mi hai trasmesso ...grazie per la contagiosità dei tuoi racconti....un forte abbraccio
 

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